Segnalazioni


Benefits gained, benefits lost: comparing baby boomers to other generations in a longitudinal cohort study of self-rated health
Badley EM, Canizares M, Perruccio AV et al
Milbank Q 2015; 93: 40-72

Negli ultimi decenni l’Europa ha registrato un progressivo invecchiamento della sua popolazione dovuto principalmente a due fenomeni: il crollo del tasso di fertilità e il costante incremento della vita media. Le proiezioni sulla dinamica demografica europea sono allarmanti. Nel 2060 si prevede che gli over 65 aumenteranno dal 18,9% di oggi (Ocse, 2016) al 28%.
È estesa la convinzione per cui la generazione dei baby boomer, espressione coniata negli Usa per indicare la generazione caratterizzata dall’‘esplosione’ di nascite avvenuta nel secondo dopoguerra, tenda ad invecchiare in condizioni migliori rispetto alle generazioni precedenti. Gli autori dell’articolo provano a investigare empiricamente la veridicità di tale convinzione utilizzando dati canadesi della National population health survey 1994-2010 e costituendo uno studio di coorte in cui si confronta la salute percepita di 4 differenti generazioni: world war II (nati tra il 1935 e il 1944), older baby boomer (nati tra il 1945 e il 1954), younger baby boomer (nati tra il 1955 e il 1964), e la generation X (nati tra il 1965 il 1974). L’aumento dei livelli di istruzione, di benessere economico e i progressi in campo medico sono i tre effetti studiati nella scomposizione age-period-cohort (APC) per comprendere quale tra questi tre influenzi maggiormente la percezione dello stato di salute e per individuare potenziali differenze intergenerazionali.
La conclusione tratta dallo studio così condotto evidenzia come istruzione e maggiore prosperità influiscano maggiormente sulla salute. Al contrario di quanto ipotizzato inizialmente, i baby boomer non risultano possessori di una condizione di salute migliore rispetto alle altre generazioni, seppur cresciuti e vissuti in un’epoca di maggiore benessere economico e di innovazioni tecnologiche rispetto al passato, con più opportunità lavorative rispetto al presente e una generale stabilità.


Do healthcare tax credits help poor health individuals on low incomes?
Di Novi C, Marenzi A, Rizzi D
Eur J Health Econ 2017
doi:10.1007/s10198-017-0884-8

Nel nostro ordinamento tributario, così come in molti altri paesi, le spese per beni o servizi legati a prestazioni medico-sanitarie danno diritto alla detrazione d’imposta.
Le detrazioni sulle spese relative all’acquisto di beni o servizi legati a prestazioni medico-sanitarie producono due effetti sul reddito disponibile: riducono il debito di imposta per il contribuente e influenzano il ‘prezzo’ di beni e servizi sanitari e conseguentemente, nella misura in cui la domanda di tali beni è elastica, influenzano l’ammontare di spesa sanitaria detraibile. Questi due effetti non solo possono influenzare il reddito ma anche lo stato di salute individuale attraverso il reddito stesso e la disuguaglianza in salute. Gli autori di questo studio stimano questo ultimo effetto con riferimento al panorama italiano e all’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), incorporando nel modello il comportamento del contribuente e calcolando l’elasticità della spesa sanitaria rispetto al prezzo.
Il modello di microsimulazione BETAMOD sviluppato da Albarea e colleghi (Accounting for tax evasion profiles and tax expenditures in microsimulation modelling. The BETAMOD model for personal income taxes in Italy, Working Papers, Department of Economics, Ca’ Foscari University of Venice, No. 24/WP/2015) ha permesso di ipotizzare tre scenari differenti: il primo è quello in cui la detrazione su spese sanitarie è quella riconosciuta per legge pari al 19% al lordo della franchigia di 129,11 euro; il secondo quello in cui le spese per beni e servizi sanitari danno diritto a una detrazione d’imposta pari al 50%; il terzo scenario quello in cui non vengono riconosciute detrazioni sulle spese sanitarie (tasso di detrazione 0%). Il fine è quello di capire se è possibile associare una variazione della disuguaglianza in salute a ciascuno scenario.
Il campione selezionato ha premesso l’esclusione di tutti i contribuenti con familiari a carico in quanto i dati non consentono di distinguere tra le spese sanitarie pagate dal contribuente e quelle sostenute per il familiare a carico.
I risultati mostrano che un potenziale aumento della detrazione fiscale sulle spese sanitarie non ridurrebbe la disuguaglianza in salute, che tende ad essere concentrata in quella parte della popolazione che presenta uno stato socioeconomico più elevato. Questo potrebbe essere legato al fatto che l’ammontare di spesa sanitaria e quello della detrazione aumentano all’aumentare del reddito, favorendo i più ricchi. L’eliminazione della detrazione produce una riduzione della diseguaglianza. Tuttavia l’eliminazione della detrazione non sarebbe auspicabile poiché la sua presenza è giustificata dalla rilevanza sociale della spesa sanitaria e dall’accesso ai servizi sanitari.
Gli autori, infine, simulano un quarto e ultimo scenario, nel quale la detrazione sulle spese sanitarie è funzione del reddito: in particolare, al fine di garantire un gettito costante, viene fissata una detrazione sulle spese sanitarie pari al 26,5% per tutti coloro il cui reddito lordo è inferiore o uguale a 15.000 euro (primo scaglione Irpef); per coloro con un reddito superiore a 15.000 euro la detrazione diventa una funzione lineare decrescente del reddito e pari a zero solo per i redditi superiori a 75.000 euro (lo scaglione più elevato). Questo meccanismo sembra presentare un migliore effetto redistributivo e il risultato suggerisce che sarebbe desiderabile, al fine di ridurre la disuguaglianza, che le detrazioni fossero commisurate al reddito dei contribuenti.


Time to market and patient access to new oncology products in Italy:
a multistep pathway from European context to regional health care providers
Russo P, Mennini FS, Siviero PD, Rasi G
Ann Oncol 2010; 21: 2081-2087

La natura del farmaco, in parte prodotto industriale sottoposto a brevetto e in parte strumento terapeutico, comporta in ogni paese la necessità di una regolamentazione che in Italia è particolarmente forte. Nel nostro paese il tempo che intercorre tra l’accesso al farmaco da parte del paziente e l’immissione dei farmaci sul mercato è tra i più lunghi in Europa, in particolare per i farmaci oncologici. Di fatto, dopo aver presentato la documentazione attinente ai risultati delle sperimentazioni, per poter commercializzare il farmaco è necessaria l’Autorizzazione per l’immissione in commercio da parte dell’Ema (European medicines agency) e mutuo riconoscimento dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco), che assicurano che i farmaci abbiano efficacia terapeutica. Una volta ottenuta l’Autorizzazione per l’immissione in commercio, il farmaco dovrà essere inserito nei prontuari regionali vincolanti, passando per commissioni territoriali o locali di vario livello. Solo allora il medico ospedaliero potrà prescrivere il farmaco.
L’articolo preso in considerazione si occupa di quantificare il tempo che intercorre tra il completamento della fase di R&D e l’accesso al farmaco da parte dei pazienti nelle diverse Regioni italiane.
Lo studio si divide in due parti:
• una parte descrittiva, in cui vengono studiate le ‘curve di sopravvivenza’ secondo il metodo Kaplan-Meier;
• una parte inferenziale, che utilizza la regressione di Cox (anche conosciuta come proportional hazard regression model). Il modello di regressione di Cox è utilizzato per stimare la probabilità (hazard) di avere ‘accesso al farmaco’ al tempo ti, dato l’inserimento in prontuario del farmaco oncologico e controllando l’effetto esercitato da un insieme di variabili esplicative.

La conclusione rivela che il tempo medio di accesso al farmaco oncologico, indipendentemente dalla sua importanza, è di circa 2,3 anni (857 giorni). Una buona parte del tempo (circa il 31,8%) è richiesto dall’Ema che verifica l’efficacia, la sicurezza e la qualità del farmaco; segue l’Aifa con il 28,2% del tempo. In seguito alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della determina Aifa di prezzo e rimborso (ovvero della messa a disposizione del farmaco al Servizio sanitario nazionale), l’inserimento del farmaco in prontuario vincolante implica ulteriori ritardi.


Prices, costs, and affordability of new medicines for hepatitis C in 30 countries:
an economic analysis
Iyengar S, Tay-Teo K, Vogler S et al
Plos Med 2016; 3 (5): e1002032

Il virus dell’epatite C (Hcv) è un problema di salute pubblica globale. Se non trattata, questa infezione può portare alla cirrosi e al cancro, con un potenziale di 700.000 decessi annui. A fronte di una notevole ottimizzazione dell’efficacia di cura e del grado di tollerabilità per i pazienti, i nuovi farmaci per l’epatite C presentano un prezzo così elevato da limitarne fortemente l’accesso.
Questo studio confronta in modo sistematico i prezzi di sofosbuvir e ledipasvir/sofosbuvir, tenendo conto di probabili sconti, al fine di calcolare il costo totale potenziale della cura per diversi sistemi sanitari nazionali. Sono stati presi in esame i prezzi dell’anno 2015 per 12 settimane di trattamento con sofosbuvir e ledipasvir/sofosbuvir. Inoltre, con l’intento di avere una visione onnicomprensiva della sostenibilità dei costi, è stata valutata l’economicità e l’impatto sul bilancio di questi trattamenti non solo per i sistemi sanitari, ma anche per quei pazienti che devono pagare da soli il trattamento completo, essendo privi di rimborso da parte dell’assicurazione sanitaria pubblica o privata.
Le conclusioni evidenziano forti discrepanze di costo. Negli Usa i primi prezzi di listino pubblicati per 12 settimane di trattamento con sofosbuvir e ledipasvir/sofosbuvir erano rispettivamente di 84.000 e 94.500 dollari, mentre in paesi come la Mongolia, l'Egitto e il Pakistan il costo pubblico della cura è di circa 900 dollari per 12 settimane di sofosbuvir. Secondo alcuni studi, questa differenza di prezzo si spiega con il fatto che il 73% delle persone affette da Hcv cronica vive nei paesi a basso e medio reddito. Con l’India, invece, sono stati stabiliti accordi di licenza per produrre farmaci generici e distribuirli in 101 paesi. I licenziatari indiani vendono il sofosbuvir generico a prezzi compresi tra 161 e 312 dollari per una confezione di 28 capsule. Il contratto di licenza non include però 39 paesi a reddito medio, tra cui Brasile, Cina, Messico e Turchia.
In tutti i paesi studiati, il costo totale del trattamento per tutti i pazienti con epatite C sarebbe pari ad almeno un decimo della spesa farmaceutica annuale complessiva. Nei paesi in cui i prezzi sono alti e l’onere della malattia è rilevante, il costo totale del trattamento per tutti i pazienti sarebbe più alto del costo sostenuto per tutti gli altri farmaci. Nel caso in cui il costo della cura sia sostenuto direttamente dai singoli, in 12 dei 30 paesi analizzati il costo totale di un solo ciclo completo di sofosbuvir sarebbe equivalente a un anno o più del reddito medio dei pazienti.
Alcuni sistemi sanitari nazionali hanno dovuto limitare l'accesso a questi farmaci a piccoli gruppi di pazienti, nonostante quasi tutti i pazienti con epatite cronica C abbiano la probabilità di trarre beneficio dal trattamento con questi farmaci.
Il costo complessivo del potenziale trattamento presenta quindi un dilemma finanziario ed etico. Se i servizi sanitari di ogni paese vorranno pagare il trattamento a tutti i pazienti affetti da epatite C, i governi e gli operatori del settore dovranno realizzare, congiuntamente, quadri di tariffazione più equi che porteranno a prezzo più accessibili.
E in Italia?
L’Italia è il primo paese dell’Unione europea ad aver attuato un piano triennale per l’eradicazione dell’epatite C cronica grazie all’impegno dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).
Sovvertendo i precedenti criteri per l’accesso alle cure basati sulla rimborsabilità del farmaco innovativo, i nuovi 11 criteri di trattamento scaturiti dal dialogo con le società scientifiche e condivisi con la Commissione tecnico-scientifica (Cts) dell’Aifa allargheranno l’accessibilità alla terapia innovativa a 80.000 pazienti l’anno, per un totale di 240.000 pazienti in tre anni.
I criteri saranno implementati nei registri di monitoraggio, che tracceranno la gestione della terapia dei singoli pazienti da parte dei Centri prescrittori individuati dalle Regioni.
È inoltre possibile inserire anche i pazienti da ritrattare con un’associazione di almeno 2 farmaci antivirali ad azione diretta di seconda generazione (direct acting agents - DAAs) in seguito al fallimento di regimi di trattamento senza interferone.
Per quanto attiene al prezzo, l’Aifa sta conducendo alcune trattative con le aziende farmaceutiche per la definizione dei prezzi dei nuovi farmaci di seconda generazione. L’obiettivo è di arrivare a prezzi etici e sostenibili per il Servizio sanitario nazionale e, soprattutto, far sì che le Regioni sappiano in modo preciso quanto costerà ogni singola terapia. Regioni che devono far riferimento al principio secondo cui, a parità di efficacia, si deve prediligere il farmaco meno costoso.


The impact of acute health shocks on the labour supply of older workers:
evidence from sixteen European countries
Trevisan E, Zantomio F
Labour Econ 2016; 43: 171-185

L’idea all’origine di questo studio è di conoscere la diversità di reazioni e comportamenti tra lavoratori e lavoratrici dopo il primo episodio di infarto, ictus o cancro.
Basandosi su indagini campionarie della Survey of health, ageing and retirement in Europe e dell’English longitudinal study of ageing, che hanno coinvolto circa 130.000 ultracinquantenni, osservati negli anni che vanno dal 2002 al 2013 in 16 paesi europei, i risultati di questo studio mostrano che la sperimentazione di uno shock acuto di salute in media raddoppia il rischio che un lavoratore più anziano abbandoni il mercato del lavoro e sia accompagnato da un deterioramento del funzionamento fisico e della salute mentale, nonché da una riduzione dell’aspettativa di vita percepita.
In entrambi i sessi la permanenza al lavoro è influenzata dall’insorgenza della disabilità, che agisce come una barriera, anche se gli uomini tendono mediamente a continuare a lavorare più ore rispetto alle donne anche dopo l’evento acuto. Le donne, se le condizioni economiche della famiglia lo permettono, preferiscono avere più tempo libero, percependo un sostanziale accorciamento della propria speranza di vita.
La differenza di reazione tra i due sessi è dovuta al fatto che sono ancora prevalentemente gli uomini a garantire in famiglia il reddito principale, e quindi un tenore di vita accettabile per i propri familiari e un benessere economico negli anni a venire.
Chi non ha un partner sul quale contare per un aiuto (nella cura personale o domestica, o per il trasporto al lavoro) mostra particolari difficoltà a rimanere attivo, anche se rischia di subire pesanti ricadute finanziarie proprio per l’assenza di altre entrate familiari.
Politiche mirate di riqualificazione lavorativa o l’abbattimento delle barriere architettoniche potrebbero favorire il reinserimento di chi tende a lavorare di più anche dopo episodi invalidanti come quelli ipotizzati, mentre una politica di compromesso tra l’incentivo al lavoro e il sostegno al reddito assisterebbe chi decide di cessare l’attività lavorativa.
Lo scenario descritto in questo studio manifesta come siano auspicabili politiche lavorative e sociali più mirate per i casi presi in esame. Nonostante la rilevanza, di questo tema per le politiche di previdenza sociale la questione non è ancora stata empiricamente affrontata nel contesto europeo.

A cura di Sara Maria Barbani
Università di Pavia