Pragmatic trial: a che punto siamo?

Luciana Ballini

Agenzia sanitaria e sociale regionale, Regione Emilia-Romagna


Della distinzione tra l’approccio ‘esplicativo’ (explanatory) e l’approccio ‘pragmatico’ (pragmatic) degli studi clinici, proposta da due statistici francesi nel 1967, si occupano da diversi anni e in maniera continuativa i metodologi della ricerca biomedica. Oltre ai numerosi articoli pubblicati, per i pragmatic trial (altrimenti detti anche practical clinical trial) sono stati messi a punto anche una versione apposita del CONSORT Statement e uno strumento (PRECIS) per valutare l’esatta tipologia o natura di uno studio, rispetto ad una immaginaria linea continua che corre tra gli studi esplicativi e quelli pragmatici.
L’attenzione recentemente posta dalla ricerca traslazionale sul persistere del divario tra i risultati proposti dalla ricerca biomedica e le scelte assistenziali di clinici, decisori e pazienti ha risvegliato la necessità di comprendere ed apprezzare le differenze tra questi due approcci, oltre che di definirne meglio implicazioni e ricadute dei risultati che producono. Il numero dello scorso maggio del Journal of Clinical Epidemiology ospita un lungo e articolato dibattito sugli elementi salienti di questa distinzione con ben otto articoli (incluso il reprint dell’articolo del 1967), il primo dei quali si presenta con il significativo titolo “Di quali studi randomizzati abbiamo bisogno?” (Zwarenstein M, Treweek S, JCE 2009; 62: 461-463).
La letteratura sul trasferimento dei risultati della ricerca nella pratica clinica ci dimostra e insegna che esiste una varietà di fattori che rallentano o impediscono questo passaggio e che, coerentemente con la complessità della pratica assistenziale, sono riconducibili a diversi aspetti di natura individuale, professionale, sociale, economica, etc. Volendo dare un ordine temporale a questi fattori di ostacolo, il primo è senz’altro legato alla conoscenza dei risultati della ricerca e il secondo consiste nel ritenere quei risultati altamente ‘probabili’. In altre parole la scoperta di un trattamento o test diagnostico (più) efficace si può tradurre in nuovi trattamenti terapeutici o nuovi percorsi diagnostici se le conclusioni degli studi sono efficacemente divulgate e se coloro che operano le scelte terapeutiche/diagnostiche sono convinti che i loro pazienti ne potranno trarre lo stesso tipo di beneficio dimostrato e sostenuto negli studi.
È l’annoso problema della differenza tra l’efficacy e l’effectiveness.
Per quanto gli otto articoli del JCE – scritti dai maggiori esperti internazionali del settore – possano sorprendere (e a tratti infastidire) per la puntigliosità del dibattito e per una certa faziosità della dialettica, rappresentano un’opportunità per riflettere e fare il punto sul filo che lega la metodologia delle sperimentazioni cliniche alla fruibilità/utilità dei risultati. Come spesso accade, la comprensione delle differenze tra due elementi si affida alla loro esatta definizione, e la definizione di uno studio a sua volta viene collegata alla finalità che si propone. Quindi gli studi cosiddetti explanatory sono quelli che si prefiggono lo scopo di comprendere “come e perché” un intervento agisce e di dimostrare una ipotesi di causalità (una data risposta biologica è causata dalla esposizione ad un dato trattamento). Sono pertanto disegnati per massimizzare la probabilità che gli effetti biologici ipotizzati di un nuovo trattamento vengano evidenziati e dimostrati. I pragmatic trial si pongono invece l’obiettivo di dimostrare “se e quanto” un dato intervento produce l’effetto desiderato. Se trattiamo in questi termini le differenze metodologiche tra i due tipi di studi, è evidente il rischio di impantanarsi nelle disquisizioni sulle differenze tra studi di causa e studi di effetto, spiegazione e predizione, spiegazione e comprensione, leggi di copertura e dimostrazioni empiriche, etc. che tanto intrattengono e appassionano gli storici e filosofi della scienza.
Un altro modo proposto per differenziare gli studi sul “come e perché” da quelli sul “se e quanto” è quello di sostenere che i risultati dei primi forniscono informazioni, mentre i risultati dei secondi suggeriscono decisioni. Tuttavia questa separazione tra informazioni e decisioni è destinata a creare un certo disagio in un momento in cui si sostiene la necessità di rendere le decisioni informate da conoscenze ottenute in maniera scientifica. Per non cadere nel tranello della pretenziosità sembra più utile rimandare ad altre discipline – più competenti in materia – l’onere delle macro definizioni, e soffermarsi sui dettagli che differenziano i due approcci riconducendoli per dovere di brevità a quattro elementi principali:
1. La scelta dei trattamenti a confronto: i pragmatic trial sono spesso disegnati su confronti testa-a-testa tra diverse strategie disponibili, scelte tra le alternative clinicamente rilevanti, mentre la maggior parte degli explanatory trial confrontano i nuovi trattamenti al placebo o al non intervento, nel tentativo di massimizzare la probabilità di rilevare una differenza.
2. I criteri di eleggibilità dei pazienti: i pragmatic trial scelgono di includere una popolazione eterogenea, per condizione clinica e per contesto assistenziale, in modo da rispecchiare al meglio il mix di pazienti della pratica quotidiana. Negli explanatory trial vengono utilizzati criteri più stringenti, che vanno dalla conferma diagnostica della condizione alla maggiore probabilità sia di rispettare che di rispondere al trattamento proposto.
3. La flessibilità dell’intervento: l’approccio del pragmatic trial lascia i dettagli della somministrazione dell’intervento sperimentale alla decisione e giudizio dell’erogatore e non pone criteri di inclusione dei professionisti rispetto alla loro esperienza o curva di apprendimento. Negli explanatory trial le modalità di somministrazione del trattamento e la expertise dei professionisti sono ben definite e standardizzate per evitare che le differenze interferiscano con gli esiti clinici.
4. La scelta degli esiti clinici: i pragmatic trial si focalizzano su esiti clinici primari oltre che sui rischi e gli effetti avversi, generalmente poco studiati negli explanatory trial che tendono a privilegiare esiti surrogati e riscontrabili a breve termine.

Sulla base di questi quattro punti è facile capire come i pragmatic trial siano proposti come metodologia per risolvere la questione della differenza tra efficacy e effectiveness (tanto spesso sottolineata quanto raramente affrontata), e quanto assomiglino a studi di fase 4. Nel dibattito sul JCE – dove vengono anche trattati problemi metodologici per la corretta analisi e interpretazione dei dati – viene ampiamente discusso il tema della trasferibilità dei risultati, che da alcuni viene fatta dipendere direttamente dal livello di corrispondenza tra soggetti/contesto degli studi e soggetti/contesto della pratica assistenziale. Il rischio è di arrivare a sostenere che la corrispondenza ‘perfetta’ – e quindi la massima trasferibilità – si ha solo conducendo lo studio nel proprio ospedale, reparto, ambulatorio e sono subito apparenti le conseguenze di una tale frammentarietà sulla cumulabilità della ricerca (e sulla sensatezza delle revisioni sistematiche). Il tema è quello della trasferibilità diretta o ‘stretta’ dei risultati verso quella ‘allargata’ o della generalizzabilità. I sostenitori dei pragmatic trial sono alla ricerca della massima generalizzabilità, affermando che la debolezza degli explanatory trial sta nel fatto che i risultati positivi ottenuti non sono in grado di informare direttamente la pratica clinica, pur essendo in grado di informare la ricerca futura o decisioni assistenziali circoscritte a situazioni ristrette ed ottimali. La loro forza sta nella robustezza dei risultati negativi, anche se purtroppo raramente pubblicati. La debolezza dei pragmatic trial invece consiste nel fornire risultati negativi, che non possono essere considerati risolutivi rispetto all’utilità del trattamento, che potrebbe risultare efficace in circostanze ottimali o per un particolare sottogruppo di pazienti. Il loro punto di forza sta però nel fatto che i risultati positivi che forniscono sono senz’altro in grado di informare le decisioni assistenziali in condizioni ‘usuali’. In altre parole i secondi forniscono risultati più ‘conservativi’ dei primi. Viene quindi spontaneo chiedersi quale ruolo dovrebbero avere i risultati dei pragmatic trial nell’ambito della produzione di raccomandazioni per la pratica clinica: inserirsi nell’ordine gerarchico che determina il livello di evidenza – magari davanti agli explanatory trial – oppure contribuire a determinare la forza di una raccomandazione? Quale dei due approcci “conta di più” per la formulazione delle raccomandazioni e quale per la adesione alle raccomandazioni?
Mentre il dibattito continua, una riflessione conclusiva meno problematica – ma dalle importanti implicazioni per la prioritarizzazione e il finanziamento della ricerca nei servizi sanitari – è che la metodologia proposta per i pragmatic trial appare molto interessante e rilevante per quelle situazioni in cui si sente il bisogno di verificare se e quanto gli interventi dimostrati efficaci dagli explanatory trial portino gli stessi benefici e gli stessi rischi anche nel proprio contesto assistenziale. Spesso nei programmi di implementazione di raccomandazioni basati sulle evidenze ci si impegna in audit clinici, monitoraggi o studi osservazionali per avere indicazioni sui risultati ottenuti nel proprio contesto e i pragmatic trial, pur essendo complessi e dispendiosi, offrono una alternativa più rigorosa ai fini di risultati più robusti e maggiormente condivisibili.