‘IDEAL’: una proposta per la ricerca ideale in chirurgia

Luciana Ballini

Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale, Regione Emilia-Romagna


Il volume 374 del Lancet1 – settembre 2009 – ospita una serie di articoli sul tema dell’innovazione in chirurgia o, meglio, della valutazione dell’innovazione in chirurgia. La serie raccoglie gli elementi salienti di un percorso intrapreso da metodologi, statistici, chirurghi e anestesisti, che hanno avuto modo di incontrarsi e discutere di ricerca in chirurgia nell’ambito di tre Balliol Colloquia dell’Università di Oxford tra il 2007 e il 2008. Un gruppo di loro, la Balliol Collaboration, si è poi riunito nella primavera del 2009 per riportare le conclusioni di questo percorso. Già negli anni Settanta all’Università di Harvard si erano tenuti seminari in cui epidemiologi, chirurghi e ricercatori avevano discusso della variabilità riscontrata in chirurgia e dei problemi legati ai metodi della sua valutazione. Man mano che si afferma la cultura della sperimentazione formale e della ricerca di alta qualità metodologica, alcune branche della medicina – tra le quali la chirurgia – sembrano irrigidirsi sempre di più nei riguardi dell’approccio del trial clinico randomizzato e controllato. In questi anni sono stati pubblicati numerosi articoli, commenti, lettere ed editoriali sull’argomento; nel 2003 in Inghilterra è stato pubblicato un rapporto di HTA sulla valutazione degli studi non randomizzati che mette in guardia contro il rischio di produrre risultati che «non convincono nessuno» e nel 2008 è stata pubblicata una versione modificata del CONSORT – linea guida per la rendicontazione degli studi randomizzati e controllati – che fornisce gli standard per gli studi sui trattamenti non farmacologici, tra i quali sono inclusi gli studi che valutano gli interventi chirurgici. Quindi la pubblicazione apparsa su Lancet – annunciata da tempo – era attesa dai professionisti del campo interessati al dibattito sull’opportunità di sottoporre le innovazioni in chirurgia ad un processo di valutazione formale e rigoroso, in tutto simile a quello di altri interventi terapeutici. Tutta questa attenzione al problema è del resto giustificata anche dal fatto che le difficoltà metodologiche della sperimentazione in chirurgia sembrano essere tra i motivi della limitata quota di finanziamenti che la ricerca in chirurgia riesce ad assicurarsi. I dati sui finanziamenti dell’NIH pubblicati nel 2008 dall’ Annals of Surgery indicano un trend costantemente in negativo per la ricerca in chirurgia: nel 2005 solo poco più del 2% dei fondi assegnati alla ricerca riguardava sperimentazioni chirurgiche a fronte di una richiesta di finanziamenti che raggiungeva appena il 3% di tutte le richieste pervenute all’NIH.
Volendo riassumere, gli argomenti a sostegno della scarsa suscettibilità della pratica chirurgica ai vincoli della sperimentazione clinica sono i seguenti. Il primo problema è capire quando una innovazione chirurgica è ‘pronta’ per essere valutata con uno studio randomizzato e controllato. Spesso è difficile individuare il momento opportuno in cui passare da studi esplorativi – finalizzati a stabilire se l’intervento ‘funziona’ – a studi valutativi finalizzati a verificarne i benefici per il paziente. A differenza, per esempio dei farmaci, l’innovazione chirurgica è pensata, concepita e inizialmente testata dai chirurghi stessi, mentre questi sono alla ricerca di soluzioni a problemi irrisolti oppure mentre affrontano una contingenza che li porta a cercare nuove strade. Una volta concepita, questa nuova idea viene ri-applicata e continuamente perfezionata. Questa attesa del perfezionamento della nuova tecnica – e quindi del completamento della fase esplorativa – è necessaria per condurre in sicurezza una sperimentazione su un maggior numero di pazienti. Tuttavia l’affermarsi della tecnica arriva a ‘conquistare’ i chirurghi sperimentatori che perdono l’ equipoise e non si identificano più con il principio di incertezza che li costringerebbe ad applicare la vecchia e nuova tecnica indifferentemente o in maniera random. Il primo grosso scoglio alla sperimentazione è infatti la randomizzazione dei pazienti, ritenuta non solo difficile ma anche non auspicabile da una buona parte della comunità di chirurghi. Oltre alle preferenze dei chirurghi pesano infatti le preferenze dei pazienti, che generalmente si approcciano all’intervento chirurgico con ponderazione e dopo consultazione con il professionista che li consiglia e individua insieme al paziente la soluzione al problema più appropriata. Quando la nuova tecnica non è ancora diffusa, la randomizzazione può richiedere di sottoporsi ad un intervento eseguito da un professionista diverso, o persino in una struttura sanitaria diversa, da quella di riferimento per il paziente e questo rende il reclutamento dei pazienti particolarmente difficile. Inoltre i problemi legati al peso della curva di apprendimento, all’esperienza del chirurgo, all’impossibilità di condurre gli interventi ‘in cieco’ o di utilizzare il placebo come confronto tendono a sminuire l’importanza dello studio controllato e randomizzato, che risulterebbe comunque esposto ad una serie di bias difficili se non impossibili da controllare.
La complessità delle procedure chirurgiche, che sono interventi compositi con elementi difficilmente separabili, li rende poco paragonabili agli interventi farmacologici, che possono essere somministrati con tempi e modalità uniformi. Non solo l’intervento chirurgico ‘risente’ di una serie complessa di procedure pre e post-operatorie che coinvolgono un ampio numero di figure professionali, ma è eseguito da un professionista – il chirurgo – che ha proprie caratteristiche personali, esperienza, processi decisionali e che è tenuto ad apportare modifiche all’intervento se la contingenza lo richiede. La potenziale variabilità dell’intervento solleva due importanti problemi per il disegno di un trial: quando la modifica è sufficientemente sostanziale e fino a che punto standardizzare la tecnica in esame?
A tutt’oggi i chirurghi pubblicano principalmente serie di casi, spesso di bassa qualità metodologica e privi sia di protocolli prospettici che di adeguate forme di informazione per i pazienti. Ma il contenzioso tra metodologi e chirurghi si spinge oltre la scelta del disegno di studio. La critica sostanziale riguarda anche gli obiettivi delle valutazioni, spesso limitati ad esiti a breve termine che riflettono la fattibilità e sicurezza dell’intervento (tempo di procedura, complicanze intra-operatorie, ‘riuscita’ dell’intervento) e raramente misurano i benefici clinici a lungo termine dell’operazione, dimostrando di non dare il giusto peso al legame tra procedura chirurgica e benessere e salute del paziente.
Queste ed altre problematiche sono state discusse ai Balliol Colloquia da professionisti e metodologi con lo scopo di superare le rispettive idiosincrasie, riconoscere le difficoltà oggettive della sperimentazione chirurgica e trovare soluzioni affinché anche la chirurgia, come altri interventi sanitari complessi, possa avvalersi di una tradizione scientifica di ricerca i cui risultati siano fruibili dalla comunità scientifica di riferimento e dai responsabili di politiche sanitarie.



La proposta emersa da questo confronto si chiama IDEAL: Idea - Development - Exploration - Assessment - Long-term study che riflette nell’acronimo la peculiarità con cui si sviluppa l’innovazione in chirurgia: spesso frutto dell’idea di un singolo, sviluppata in ambiti ristretti, esplorata da pochi e infine diffusa. Nelle raccomandazioni IDEAL si chiede che la fase di esplorazione sia seguita da una fase di valutazione formale e controllata da parte di un numero maggiore di chirurghi che hanno il compito di consegnare la nuova tecnica a successivi studi di monitoraggio di lunga durata. Le fasi della sperimentazione in chirurgia che vengono proposte sono 5 e in ognuna di esse vengono chiesti sostanziali cambiamenti al modus operandi della comunità scientifica dei chirurghi.
Nel primo stadio, quando l’innovazione in genere nasce dall’esigenza di una nuova soluzione ad un problema clinico, gli obiettivi principali sono la dimostrazione che l’idea è applicabile negli esseri umani. Pur non essendo necessaria l’approvazione di un comitato etico è eticamente inderogabile l’acquisizione di un consenso informato dei pazienti. Anche le strutture sanitarie in cui si sviluppa la nuova idea devono essere adeguatamente informate e gli esiti di ogni intervento – andati a buon fine o meno – devono essere riportati dai chirurghi in un apposito registro. Nel secondo stadio l’obiettivo è replicare i risultati preliminari in un iniziale ridotto gruppo di pazienti (raramente più di 30) e perfezionare la tecnica. L’utilizzo in questo stadio di serie di casi retrospettive è stato giustamente criticato e viene proposto di sviluppare e pubblicare, prima di iniziare il reclutamento dei pazienti, protocolli prospettici che descrivano i criteri di inclusione dei pazienti, la tecnica e gli esiti che verranno valutati. Poiché modifiche alla tecnica sono prevedibili  è necessario che queste vengano meticolosamente registrate al fine di comprenderne le implicazioni. Anche la curva di apprendimento deve essere attentamente valutata e riportata. L’approvazione del Comitato etico è già da questo momento ineludibile. Nel terzo stadio la tecnica dovrebbe essere sufficientemente definita da permettere ad altri chirurghi di sperimentarla e l’obiettivo è quello di riprodurne i risultati su un numero crescente di pazienti. L’interesse primario è ancora circoscritto alla sicurezza, la valutazione delle complicanze e la riproducibilità dell’intervento. Il quarto stadio rappresenta il momento appropriato per la valutazione formale ed è anche quello più a rischio di essere tralasciato, in quanto una parte della comunità chirurgica è già convinta della superiorità della nuova tecnica e insofferente verso gli studi che, per dimostrarne l’efficacia clinica, richiedono di indirizzare i pazienti verso la vecchia procedura, già ritenuta inferiore. La decisione più difficile è la scelta del confronto e del disegno di studio. Qui il framework IDEAL riconosce le difficoltà oggettive alla randomizzazione e propone una serie di alternative per il reclutamento dei pazienti che possono ridurre o controllare i confondenti relativi ai pazienti e ai chirurghi. Infine viene proposto un quinto stadio per il monitoraggio di esiti a lungo termine e di eventi rari, la cui modalità ottimale è il registro.
Il modello si basa sulla convinzione che l’innovazione chirurgica e la sua valutazione possono e devono svilupparsi insieme – e non essere considerate una ostacolo dell’altra – attraverso la concettualizzazione, l’esplorazione e la validazione dei risultati ottenuti e della loro trasferibilità nella pratica chirurgica quotidiana. Poiché il punto in cui una innovazione evolve in una nuova procedura può non essere ovvio, la registrazione prospettica di ogni nuova tecnica e la precoce approvazione etica sono incoraggiate, in modo da permettere che evoluzione e valutazione si realizzino simultaneamente. Il contributo importante di questo modello sta senza dubbio nell’aver cercato una soluzione al problema della randomizzazione, che non è un semplice volersi sottrarre ad una valutazione rigorosa, ma riflette una ricaduta importante sul rapporto tra medico e paziente. La maggior parte delle innovazioni sottoposte a sperimentazione – come è il caso per i farmaci – è pensata, concepita e realizzata da professionisti diversi da quelli che poi la sperimenteranno e ciò facilità il mantenimento del principio di incertezza da parte del clinico, anche se permane la speranza che il nuovo trattamento dia risultati migliori del vecchio. Per gli interventi chirurgici invece, quasi sempre inventati dai chirurghi, i meccanismi di causa effetto sono concepiti e sviluppati dal medico stesso che li modifica al bisogno e ne condiziona lo sviluppo. Un tale coinvolgimento rende molto difficile l’equidistanza dal proprio prodotto e per questo è importante che la propria invenzione venga precocemente consegnata ad altri, anche a rischio di vederla ‘deturpata’. Ma anche quando il pallino passa ad altri rimane difficile per il professionista porsi nei riguardi del paziente nella veste di chirurgo incerto, che non sa dare una risposta chiara ad un problema di salute ma, anzi, chiede al paziente di condividere un’incertezza e partecipare alla sua risoluzione. La relazione quindi cambia e da particolare (proposta di una soluzione al problema, che promette cura, guarigione o miglioramento) diventa universale (proposta di collaborazione e partecipazione a individuare una cura per sé e per gli altri). Questa è un’altra di quelle tensioni – che riguarda anche altre discipline ma è particolarmente accentuata in chirurgia – specifiche della integrazione tra la attività di ricerca e quella assistenziale. Occorre che le due funzioni siano riconciliate non solo dal punto di vista logistico, operativo e di realizzazione, ma anche dal punto di vista delle relazioni tra le persone coinvolte. Come sottolineato dal modello IDEAL, il coinvolgimento e la partecipazione delle strutture sanitarie, fin dal momento della concettualizzazione dell’innovazione, costituisce la cornice di riferimento in cui fornire le garanzie necessarie a entrambe le parti e a comprendere ed accettare questa apparente contraddizione.