Corsi, ricorsi e prospettive della sanità pubblica

Giovanni Berlinguer

Facoltà di Scienze, Università La Sapienza, Roma

Riassunto. Il trentesimo anniversario della creazione del Servizio sanitario nazionale è l’occasione per ripercorrere il lungo cammino che ha portato alla nascita della sanità pubblica moderna, e nello stesso tempo per ragionare sulle sfide e sugli impegni per il futuro.
Dall’affiorare del concetto di sanità pubblica nella Roma repubblicana e imperiale fino alla nascita, alla metà del Novecento, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione mondiale della sanità, che per la prima volta ebbero come obiettivo un’azione per la salute integrata a livello mondiale, molti sono stati i progressi compiuti. Nel 1978 la grande conferenza di Alma Ata ha proposto il programma “Salute per tutti entro l’anno 2000”, rimasto purtroppo in gran parte disatteso.
Nel frattempo in Inghilterra nel 1942 nacquero il Servizio sanitario nazionale e il welfare state, che costituirono un esempio per le altre nazioni europee. In Italia bisognerà attendere il 1978, ma nel trentennio successivo la salute degli italiani sarà in notevole crescita. Il nostro servizio sanitario ha conosciuto molti mutamenti nel corso degli anni, mantenendo però sempre il carattere di universalità e di copertura assistenziale del cento per cento della popolazione, con una spesa meno alta che in altri Paesi.
A livello mondiale si è affermata l’idea che la salute nel mondo sia indivisibile e costituisca un bene comune, che è possibile espandere ovunque. Rimane comunque una grande contraddizione per cui se da un lato gli indicatori di salute continuano a progredire, dall’altro si scopre nel confronto tra le nazioni e al loro interno una crescita continua delle differenze nella salute e nelle aspettative di vita secondo le classi, i generi, le etnie, le comunità e le persone.

Parole chiave. History, sanità pubblica, Servizio sanitario nazionale.


Abstract. The thirtieth anniversary of the creation of the National health service is an occasion to retrace the long walk that has led to the birth of the modern National health service, and at the same time to look at the challenges it faces in the future.
There have been major advances since the conception of public health in the republican and imperial Rome until the birth, halfway through the twentieth century, of the United Nations (UN) and the World health organisation (Who). For the first time there was an objective of action for integrated health at a worldwide level and a great number of agents were involved in the final progression. In 1978 the conference at Alma Ata proposed a program ‘Health for all by 2000’. However, its aims were largely disregarded.
In the meantime in England in 1942 the National health service (Nhs) and the welfare state were born providing an example for other European countries. Italy waited until 1978, but in the following thirty years the health of Italians improved grew substantially. The Italian health service has seen many changes over the years, maintaining universality and covering the welfare of the population.
On a worldwide level the idea that healthcare cannot be parceled up, it constitutes a common good, and it can be improved upon grew. There are however contradictions. On one side health indicators continue to progress, on the other hand when different countries are compared differences in health and in the life expectancy depending on social class, gender, and ethnic group continue to grow.

Key words. History, National health service, public health.

La spinta iniziale per la futura creazione, in Italia, di un sistema sanitario nazionale è intervenuta fin dall’1 gennaio 1948, l’anno della Costituzione. L’affermazione dell’articolo 32 che “La Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” contiene anche un’espressione d’epoca, segnata ancora dalla compassione, ma è stata fortemente anticipatrice e lungimirante. Non è un caso che l’articolo sia collocato nel titolo II (diritti etico-sociali), anziché nel titolo III (diritti economici); che questo sia l’unico punto della Costituzione che parla non dei diritti del cittadino, ma degli individui in quanto persone comunque esistenti; e che l’impegno verso la salute delle persone sia considerato come un interesse primario della collettività.
Negli anni immediatamente successivi, come è accaduto per altre impegnative disposizioni di principio della Costituzione, l’articolo 32 “ha conosciuto una fase di sonno letargico”, dovuta anche all’espansione selettiva e disordinata delle mutue, che era “basata su una filosofia assicurativa-corporativa che tanta responsabilità ha avuto nell’arresto” (Montuschi, 1976) del riconoscimento del diritto universale alla salute. Dovevano poi trascorrere quasi due decenni, prima che ci fosse un risveglio: e questo fu clamoroso, perché dovuto a molteplici fattori, indipendenti o associati.
Sul piano politico la creazione delle regioni, che cominciarono a impegnarsi nella sanità pubblica, e il succedersi di governi aperti a molteplici riforme. Sul piano parlamentare la presentazione delle prime proposte di legge, già nel 1965 (senatore Antonino Maccarrone), per la creazione del Servizio sanitario nazionale. Sul piano sociale l’esplodere, negli anni 1968-1970 e successivi, di ampie lotte sindacali per la sicurezza del lavoro, basate sul rifiuto di monetizzare il rischio, sullo slogan “la salute non si vende” e sul diritto dei lavoratori all’integrità fisica e morale. Sul piano medico si presentò l’esigenza di affrontare due problemi irrisolti, e spesso celati: la condizione dei malati di mente e i temi della procreazione.
Già alla metà degli anni Sessanta si erano palesate, attraverso numerose indagini, le condizioni di abbandono, di reclusione e a volte di tortura, che erano presenti nel regime manicomiale e che erano emblematicamente riassunte dal timbro, che accompagnava solitamente la cartella clinica dei degenti: “Pericoloso a sé e agli altri”. Numerosi psichiatri, fra i quali emerse Franco Basaglia, e alcune amministrazioni provinciali (che gestivano allora i manicomi) cominciarono a introdurre di fatto innovazioni e a chiedere mutamenti profondi, fino a proporre un referendum popolare per abrogare le leggi esistenti.
Sui temi della procreazione, il primo cambiamento normativo fu la sentenza della Corte Costituzionale che nel 1971 cancellò l’articolo 553 del Codice penale Rocco (1930), il quale puniva “chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda a favore di esse”. Esso era inserito nel titolo X, relativo ai reati “contro l’integrità della stirpe”. Negli stessi anni vennero avanzate da più parti, di fronte ai danni e ai numerosi decessi provocati dagli aborti clandestini, crescenti richieste di depenalizzare o regolare la possibilità di abortire. Furono così presentate diverse proposte di legge: la prima dall’onorevole Fortuna (PSI) nel 1973, e poco dopo da quasi tutti i partiti.
Questi problemi (e altri), attinenti alla sanità pubblica, furono oggetto per molti anni di discussioni vivaci, controverse, ma lente, nel Parlamento e nel paese. Poi nell’anno 1978, quasi contemporaneamente, furono approvate tre leggi riguardanti la sanità pubblica: la creazione del Servizio sanitario nazionale, la riforma delle regole sulla psichiatria (che fu incorporata nel Ssn) e le norme che consentono l’aborto, a certe condizioni. Ciò non è, molto probabilmente, dovuto al caso, bensì a un decennio ricco di proposte, di convergenze, di movimenti; a una temperie politica più aperta al dialogo e alle riforme; a un vasto consenso dei cittadini e anche dei medici; all’apertura di nuove strade per la sanità pubblica. Bisogna però sottolineare due fatti: uno, molto positivo, è che la legge n. 833 fu approvata nelle due Camere con amplissimo consenso, dai partiti governativi e dall’opposizione; l’altro, un po’ inquietante, è che poco dopo il voto ci fu un rimpasto nel governo, e il Ministero della salute fu affidato (anche in tempi successivi) al partito liberale, che era stato l’unico gruppo del parlamento a votare contro. Un maligno scrisse: “Hanno affidato il formaggio in custodia ai topi”.
Si è cercato finora di enucleare alcune fasi alterne (corsi e ricorsi) del primo trentennio successivo all’articolo 32, che hanno visto alti e bassi, ma hanno portato, soprattutto, novità rilevanti come l’accesso universale ai servizi e come le valutazioni positive dell’Organizzazione mondiale della sanità (Benigni e Polillo, 2007). Si vuole ora invece compiere qualche passo all’indietro, verso le origini della sanità pubblica moderna e i suoi rapporti con la politica, utilizzando brevi flash sul passato, per ragionare poi, nell’ultima parte, sulle sfide, sui rischi e sugli impegni del futuro.
La sanità pubblica, intesa come “azioni collettive in relazione alla salute delle popolazioni” ha avuto antiche radici nella Roma repubblicana e imperiale (acqua potabile, fognature, bagni e terme, esercizio fisico, etc.), che sono state poi offuscate da un lungo abbandono. L’interesse pubblico si risvegliò, insieme alla paura, nel 1346-47 d.C., in seguito alle epidemie di peste, contro le quali le istituzioni crearono quarantene e lazzaretti. Nei secoli successivi si avviarono misure in favore dell’infanzia abbandonata, disinfezioni dei luoghi pubblici, allontanamento dei cimiteri, istituzione degli ‘ufficiali sanitari’ e di servizi pubblici di salute in molti Comuni. Nell’anno 1700, per merito dell’opera di Bernardino Ramazzini si conobbero (e si cominciarono ad affrontare) le gravi e diffuse patologie del lavoro.
Nel 1793, in Francia, il Comité de Salubrité propose e ottenne, dalla Convenzione Nazionale, che si aggiungesse alla sfera dei diritti umani proclamati dalla rivoluzione il diritto alla salute, e che lo Stato ne assumesse la guida e la responsabilità (Porter, 1999). Dopo le guerre napoleoniche Louis René Villermé, già medico militare dell’Armata, si dedicò alla diagnosi sociale delle malattie e realizzò a Parigi (1826) un’indagine differenziale sul quoziente di mortalità. Egli trovò che nell’area povera di Rue de la Mortellerie si aveva un indice di 30,6 per 1000 e nella più ricca vicina Ile-Saint-Louis un indice di 19,1: uno dei primi riscontri numerici, credo, delle disuguaglianze in salute.
Alla metà del XIX secolo, Edwin Chadwick presentò il primo rapporto On the sanitary conditions of the labouring population in Great Britain e stimolò la creazione dei servizi di igiene pubblica (Brockington, 1966); e il governo prussiano, nel 1848, inviò Rudolf Virchow in Slesia per combattere un’epidemia di tifo nella popolazione polacca. Egli constatò subito che la vera causa del male era dovuta alle pessime condizioni di igiene e di povertà, e alla presenza di uno stato autoritario e repressivo. Lo scienziato espresse l’esigenza di una “epidemia sociologica”, suggerì come ricetta preventiva “l’istruzione accompagnata dalle sue figlie: la libertà e la prosperità” e formulò infine una chiara prospettiva per il rapporto tra medicina e politica: “Se la medicina vuole raggiungere pienamente i propri fini, essa deve entrare nell’ampia vita politica del suo tempo, e deve indicare tutti gli ostacoli che impediscono il normale completamento del ciclo vitale”.
I decenni successivi furono cruciali, nel bene e nel male. Gli sconvolgimenti della rivoluzione industriale, che è stata una pietra miliare del progresso umano, ebbero all’inizio un effetto devastante a causa dell’esodo dalle campagne verso città inospitali e invivibili, dell’eccesso di ore lavorative, della carenza di cibo, dello sfruttamento delle donne e dei bambini. Solo verso la fine dell’Ottocento le inchieste governative e le ispezioni, l’aggregazione e le lotte dei lavoratori e l’avvio del risanamento urbano poterono stimolare un maggiore benessere. A questo si era aggiunto a partire dall’anno 1870, soprattutto per merito di Louis Pasteur e di Robert Koch, “l’arrivo della batteriologia, che mise per la prima volta a disposizione dei responsabili della sanità pubblica un insieme di fatti, stabiliti scientificamente e riconosciuti universalmente, sulle malattie infettive e la loro trasmissione”. Ciò permise “un’unificazione dei luoghi e delle pratiche tra ricerca scientifica, attività medica, struttura politica e sociale”.
Fino ad allora le misure di chiusura delle frontiere adottate dagli Stati in caso di epidemie erano servite, più che altro (anche perché spesso venivano violate, in nome della libertà dei commerci!), a creare un falso senso di sicurezza nella popolazione. Con la batteriologia e con le vaccinazioni “l’attenzione si spostò dalla difesa del territorio a quella dell’organismo individuale, e alla metafora militare (il territorio) si sostituì, come fine e come condizione, una politica di sanità pubblica” (Fantini, 1999). Questa politica assunse, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, un respiro internazionale che ebbe come preludio, nel 1902, l’Ufficio Sanitario Panamericano (ora PAHO), creato a Washington. Esso fu seguito dalla convocazione di dodici Stati europei, nel 1907, con lo scopo di creare un Office International d’Hygiène Publique, che fu pomposamente presentato come “incontro della scienza e della diplomazia” (Barrère, 1907). Esso si tenne a Roma e fu presieduto da Camille Barrère, ambasciatore di Francia, il quale sottolineò subito che gli scopi principali erano quelli di “difendere dalle epidemie i paesi civilizzati, affermare la dottrina del liberalismo nelle regole sanitarie, creare il massimo di protezione della salute pubblica col minimo di intralci per le relazioni commerciali e la libera circolazione”.
Quando poi nacque, dopo la guerra 1914/18, la Società delle Nazioni, che aveva anche tra i suoi fini “le misure d’ordine internazionale per prevenire e combattere le malattie”, fu creata una propria organizzazione di igiene, che ebbe la collaborazione attiva di eminenti personalità scientifiche. Nel 1920, infine, la Croce Rossa internazionale ne aggiunse un’altra analoga. Fra le due guerre ci furono quindi tre istituzioni a volte utili, ma deboli, con personale ridotto, subalterne ad altre amministrazioni e prive di un potere di intervento diretto e universale. Quando finalmente nacque l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con le sue agenzie specializzate, fu creata a fianco l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che per la prima volta nella storia ebbe come obiettivo un’azione per la salute, espansa e integrata a livello mondiale. Fu per queste ragioni che, nelle discussioni preliminari, si decise nel titolo di usare per l’Oms, a differenza delle altre sigle parallele, la parola ‘mondiale’, sottolineando che “non deve essere un campo inter-nazionale da regolare mediante convenzioni o accordi diplomatici tra paesi, ma promuovere un diritto fondamentale di ogni individuo e di ogni paese del mondo” (Fantini, 1999).
L’Oms ricevette, oltre che un nome appropriato, anche un’eredità preziosa. Nell’aprile del 1942, in una Londra tormentata dai bombardamenti, per decisione del governo inglese, William Henry Beveridge aveva presentato la proposta di creare un servizio sanitario nazionale, basato sul diritto alla salute e aperto a tutti i cittadini, indipendentemente da classi, generi e istruzione, che fu il primo esempio in Europa e si accompagnò alla creazione del welfare State. Dopo la fine della guerra, nel 1946, fu approvata la nuova legge sanitaria (National Health Act), che divenne operativa il 5 luglio 1948 e che aprì gradualmente la strada a provvedimenti simili, in diversi paesi europei. L’Oms suscitò fin dall’inizio vasti consensi, trovò una legittimità nel concorrere alla ricostruzione dei sistemi sanitari colpiti dalla guerra, e aiutò i paesi che venivano liberandosi dal colonialismo a lottare contro le epidemie.
Nel 1953, dopo il canadese Chilshom, fu nominato direttore il brasiliano Marcolino Candau, che nel 1955 diede grande impulso alla campagna di eradicazione della malaria: una meta ambiziosa “che era stata concepita e promossa nel contesto di grande entusiasmo e ottimismo di fronte alla capacità del DDT di essere cosparso uccidendo le zanzare” (Brown et al., 2006), un’esperienza che si era dimostrata efficace in varie parti del mondo. Una delle più positive si realizzò in Sardegna, col contributo della Fondazione Rockefeller.
Purtroppo le speranze si rilevarono premature. Negli anni Sessanta si constatò nel mondo un risorgere della malattia, e si valutò che anche il solo controllo “avrebbe richiesto molte strategie, tra le quali misure per elevare le condizioni sociali, economiche e ambientali dei paesi del Terzo Mondo” (Bynum e Porter, 1993) come allora si chiamava. Il successo fu invece pieno, clamoroso, e penso irreversibile, nella lotta per l’eradicazione globale del vaiolo: una delle maggiori conquiste della medicina, completata due secoli dopo l’avvio della vaccinazione di Jenner.
Negli anni 1973-79, quando l’Oms fu guidata dal danese Halfdan T. Mahler, valutando i progressi raggiunti in molte parti del mondo, fu proposto il programma ‘Salute per tutti nell’anno 2000’ (che risultò ampiamente inconcluso alla scadenza). Nello stesso periodo Mahler prospettò un modello d’azione basato su due punti: uno, la diffusione nel mondo dell’assistenza primaria alla salute, ampiamente accessibile; l’altro, la rimozione degli ostacoli sociali alla promozione della salute, perché vi contribuiscono quanto le azioni mediche “l’eliminazione della malnutrizione, dell’ignoranza, del lavoro sfruttato, dell’acqua contaminata e delle abitazioni malsane”.
Queste idee si diffusero ampiamente, si allargò il consenso, e nel 1978 (un anno cruciale per la sanità pubblica italiana, come abbiamo visto) si tenne la grande Conferenza di Alma Ata (Kazahstan), con 3000 partecipanti e 67 organizzazioni internazionali, che rilanciò la proposta. Al tempo stesso, però, il mondo cambiava; appariva più propenso a considerare la salute come fonte di investimenti economici, a criticare la sanità pubblica come ostacolo all’iniziativa privata, a trascurare il valore dei beni comuni, a spostare il quadro di comando dall’Oms verso altre agenzie internazionali: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio.
Gli orientamenti di Alma Ata si offuscarono gradualmente e furono poi ripresi, in forme aggiornate, verso la fine del Novecento. Le profonde modifiche che hanno caratterizzato i servizi sanitari negli ultimi decenni e che hanno accompagnato uno straordinario sviluppo delle conoscenze mediche, delle possibilità di prevenzione e di cura, degli impegni delle nazioni, sono state profonde ed è difficile riassumerle in poche pagine.
Nell’ambito dell’Europa sono nate idee nuove, che sono state sottolineate nella riunione delle delegazioni ministeriali dell’Unione Europea (Roma, 18 dicembre 2007), presieduta dal ministro Livia Turco. Una è il progetto di introdurre, per affinità e complementarietà con le norme già in vigore sulla valutazione dell’impatto ambientale, la costante valutazione dell’impatto sulla salute. L’altra è la strategia rivolta all’allargamento a tutte le istituzioni dell’impegno verso il benessere umano, promuovendo The health in all policies. L’idea parte dalla constatazione che lo stato di salute “è largamente influenzato da fattori che stanno al di fuori del settore sanitario: l’agricoltura, l’economia, la sicurezza alimentare, l’istruzione, la ricerca, la cultura, i trasporti, le tasse, i commerci, il lavoro…”; è perciò giusto e necessario fare appello, in nome della vita, allo slancio dei molti soggetti possibili e alla collaborazione di ministeri e agenzie, di sanitari e di altre professioni, di enti pubblici e di attività private.
L’Europa, e soprattutto i paesi che fanno parte dell’Unione, hanno da tempo il vantaggio di un modello sociale che è apprezzato dalla grande maggioranza della popolazione, anche perché è il più equo rispetto a molti altri paesi. Gli stessi Stati Uniti cercano di avviarsi su strade analoghe, che finora erano state sbarrate, per costruire un sistema universale di assistenza sanitaria.
Con rammarico si deve constatare che in tutte le delibere delle due istituzioni principali dell’Unione Europea, la Commissione e il Parlamento, compreso il Libro Bianco sulla salute che contiene il programma dell’Unione per il periodo 2008-2013 (White Paper Together for Health, 2007), si afferma sempre, nelle premesse, che la salute è importantissima perché promuove la produttività e perché aiuta a vincere la competizione economica. Non si scrive mai che la salute delle persone ha innanzitutto un valore fine a se stesso, ed è una legittima aspirazione di tutti. Si suggerisce quasi l’impressione che gli affari e le merci abbiamo la priorità sulla vita dei cittadini.
In Italia quello che risalta è innanzitutto la notevole crescita, in pochi decenni, della salute degli italiani. La speranza di vita alla nascita è passata, nel trentennio 1974-2005, da 69,6 a 77,6 anni per gli uomini, e da 75,9 a 83,2 anni per le donne. Questi dati sono fra i più alti del mondo, e sono il risultato di molti fattori sociali e culturali come la maggiore istruzione, la migliore alimentazione, i diritti dei lavoratori, le abitazioni più sane, la coesione famigliare, e altri ancora; ma vi ha contribuito certamente, in maniera determinante, il Servizio sanitario nazionale, nell’opera di prevenzione, nelle attività di cura e anche nella guida dei comportamenti.
Il servizio sanitario ha conosciuto molti mutamenti nel corso degli anni, mantenendo il carattere di universalità e di copertura assistenziale del cento per cento della popolazione, con una spesa meno alta che in altri paesi simili. I cittadini lo apprezzano, e non potrebbero farne a meno, anche se spesso si manifestano critiche, si palesano lacune; e si contaminano i rapporti con la politica. Se nel 1848 Rudolf Virchow auspicava giustamente che la medicina entrasse “nella vita politica del tempo”, allo scopo di migliorare la salute, in questo periodo sembra verificarsi una tendenza capovolta.
Come ha scritto Mario Pirani “la manomissione politica dei servizi sanitari ha raggiunto inediti primati e la lottizzazione politica impera a tutti i livelli, dalle direzioni generali ai primariati e sottoprimariati” (Pirani, 2006), col duplice risultato di non rispettare le qualità professionali del medico cui il paziente viene affidato e di favorire “l’angosciata rincorsa dei candidati a targarsi presso una o l’altra ditta politica per far valere i propri meriti”. Non si vuole certamente generalizzare, ma ci si augura che presto si stabiliscano ovunque i criteri di nomina oggettiva e il rispetto delle provate competenze. Lo esigono le ragioni di moralità politica e la qualità delle cure.
Negli ultimi anni, nella sanità pubblica italiana sono stati decisi e prospettati molti aggiornamenti. Anche il significato della parola tutela, che sta nell’articolo 32 e che i vocabolari definiscono come una funzione protettiva o difensiva, sta assumendo lineamenti più creativi e più vasti: un significato non passivo, ma partecipativo; un’espansione della quota di potere delle persone (empowerment), a partire dai più deboli, nei confronti delle istituzioni, tecnologie e professioni; la congiunzione dei diritti esigibili dalle persone ad altrettanti doveri, e a un impegno di solidarietà personale e collettiva.
Nelle prospettive di governo si è confermata la tendenza ad aggiornare i principi ispiratori dei servizi (l’unitarietà, l’universalità, l’equità), e si è aggiunto l’impegno globale di responsabilità da parte di tutte le politiche pubbliche “non direttamente sanitarie”, che influiscono notevolmente sullo stato di salute della popolazione. Il recente disegno di legge per la qualità e la sicurezza del Servizio sanitario nazionale propone un sistema di valutazione della performance (confronto tra risultato ottenuto e possibilità) a integrazione degli strumenti già esistenti per il miglioramento della qualità. Questa è la pietra di paragone dell’efficacia e su questa base si fonda il giudizio delle persone. In risposta al bisogno di salute, si sottolinea il potenziamento delle cure primarie e dell’integrazione sociosanitaria (Alma Ata!), lo stimolo all’adozione di comportamenti salubri, le forme di partecipazione del singolo alle scelte riguardanti la propria salute. In altre parole una sanità più vicina e più democratica, che tutti auspichiamo.
Nella prospettiva globale, il quadro delle malattie sembra caratterizzato, negli ultimi decenni, da una profonda contraddizione: non c’è mai stata tanta salute, come dimostra in gran parte del mondo l’aumento della vita media e la continua riduzione della mortalità infantile; e al tempo stesso mai tante persone hanno sofferto o perduto la vita per fame, povertà, ignoranza, esclusione sociale e discriminazioni, e per malattie che sono prevenibili e curabili. La contraddizione si esprime con una dinamica promettente e allarmante: da un lato gli indicatori di salute continuano a progredire; dall’altro si scopre quasi ovunque, sia nel confronto tra nazioni, sia al loro interno, una crescita continua delle differenze nella salute e nelle aspettative di vita secondo le classi, i generi, le etnie, le comunità, le persone. A questo si sono aggiunte, da qualche tempo, le preoccupazioni derivanti dai rapidi cambiamenti climatici. I paesi poveri e le persone povere ne soffrono maggiormente (sono loro a subire il 96% dei decessi causati da eventi meteorologici estremi) (Herfkens, 2007), pur avendo contribuito meno di tutti all’accumulo di gas serra nell’atmosfera.
Nell’ultimo decennio c’è stato anche un forte e originale risveglio della sanità pubblica. Grandi nazioni come il Brasile, l’India e il Sud Africa sono scese in campo per ottenere regole di maggiore accesso ai farmaci. Molte associazioni ‘non governative’, che lavorano nei paesi in via di sviluppo, e il World health forum hanno moltiplicato le loro attività. Numerosi ‘donatori’ hanno elargito cospicue risorse per la lotta contro le epidemie più gravi e più diffuse. L’Onu ha proclamato, all’assemblea solenne dell’anno 2000, i Millennium development goals, da realizzare entro l’anno 2015, che comprendono consistenti obiettivi di salute, alcuni dei quali, come la riduzione della mortalità infantile, sono già in via di miglioramento.
Ci sono quindi molti impegni e forti speranze. Sappiamo che la fisionomia di ogni paese si può misurare sulla qualità della sua salute, e su come è distribuita: più o meno equamente. Non pensiamo certamente a una uniformità coatta, perché ogni persona è diversa dalle altre e ha comportamenti e necessità proprie, bensì a quelle ineguaglianze che sono ingiuste, evitabili e rimediabili; e pensiamo alle promesse di miglioramento che possono offrire le politiche dell’equità.
Per questi scopi il Direttore generale dell’Oms Jong-Wook Lee ha istituito, nell’anno 2005, una Commissione per i determinanti sociali della salute, basata sul fatto che la medicina e l’assistenza sanitaria costituiscono uno dei fattori influenti sulla salute, e che molti altri fattori dipendono dall’ampio spettro di condizioni sociali ed economiche in cui vivono le persone. Le differenze si manifestano in diverso grado, ma ovunque: una bambina che nasce in Botswana ha una speranza di vita di 34 anni, in Giappone di 86; e in Gran Bretagna, dove il governo è molto impegnato verso l’equità, un manovale vive ancora sette anni meno di un professionista. Nel primo caso l’ingiustizia consiste nella mancanza delle condizioni elementari dell’esistenza, nel secondo da fattori materiali come la qualità del lavoro, il reddito, il rischio, ma anche immateriali: la dipendenza, l’induzione a comportamenti nocivi, la gratificazione negata, la caduta dell’autostima.
Oltre due secoli fa il filosofo ed economista Adam Smith, autore della Ricchezza delle nazioni (1776), e prima ancora della Teoria dei sentimenti morali (1759), aveva proclamato per i lavoratori “l’importanza di avere ciò che è necessario per svolgere il proprio ruolo senza vergogna”.
Per concludere, per tempi più recenti, tre sono i momenti significativi, nei quali si è espressa una visione innovativa e globale delle politiche sanitarie. Il primo è la nascita dell’Oms, nello spirito della salute universale “raggiungibile al più alto livello possibile”. Il secondo, trenta anni dopo, è il programma di Alma Ata, fondato sulla visione olistica dell’individuo, sull’assistenza primaria e sulla rilevanza dei fattori sociali, che fu presto offuscato, ma è ora ritornato alla ribalta. Il terzo momento è quello che stiamo vivendo da due lustri, nel quale si è rinnovata l’idea che la salute del mondo è indivisibile e costituisce un bene comune, che è possibile espandere ovunque.
Bibliografia
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