Consistency
Rodolfo Saracci
Senior Visiting Scientist, International Agency for Research on Cancer
Past President, International Epidemiological Association

Riassunto. L’ultima delle Lezioni americane di Italo Calvino, che hanno costituito il filo conduttore di una giornata dedicata a ricordare la figura di Alessandro Liberati (Bologna, 14 dicembre 2013), quella sulla ‘coerenza’, non è mai stata scritta. La morte prematura dello scrittore gli ha impedito di andare oltre il titolo in inglese (‘Consistency’), anche se già molto materiale era stato raccolto. Questo articolo, ispirato dal ricordo di Alessandro,  si propone di illustrare il significato di questa parola attraverso tre prospettive: una letteraria in senso lato, sperando di non tradire il significato che le avrebbe voluto dare Calvino, una epidemiologica e più generalmente scientifica, e una personale dell’autore.

Parole chiave. Consistency, epidemiologia, sanità pubblica.


Abstract. Italo Calvino never wrote the last of his six Norton lectures, published as Lezioni americane (Six memos for the next century), that formed  the “fil rouge” of a day dedicated to Alessandro Liberati (Bologna, 14th December 2013). The writer untimely death did not allow him to go beyond the title in English (‘Consistency’), although he had collected a substantial preparatory material.
This article, inspired by Alessandro’s memory, highlights  the meaning of ‘
Consistency’ from three viewpoints: a literary viewpoint in a broad sense – hopefully not  betraying the meaning Calvino would have given to it, an epidemiological and more generally scientific, and the personal one of the author.

Key words. Consistency, epidemiology, public health.

Introduzione
In questo contributo finale cercherò di riunire, nel ricordo di Alessandro, tre prospettive: una letteraria in senso lato, come suggerita dalle parole di Italo Calvino; una epidemiologica e più generalmente scientifica; una – inevitabilmente – mia personale.
La prima prospettiva, letteraria e artistica, è espressa nel testo delle Norton lectures di Italo Calvino, pubblicate in inglese con il titolo Six memos for the next millennium e poi in italiano come Lezioni americane. Calvino doveva presentarle – secondo la tradizione di questa prestigiosa serie di lezioni che si tengono all’Università di Harvard – nell’autunno del 1985, ma fu colpito da un ictus e venne a mancare, il 18 settembre, prima di partire per gli Stati Uniti. Aveva scritto il testo delle prime cinque e si preparava a scrivere la sesta quando era a Boston. Di questa sesta lettura, mai scritta, ha lasciato solo il titolo in inglese, Consistency. Nella prefazione all’edizione italiana, la moglie di Calvino menziona che l’autore aveva già raccolto un materiale ampio, che avrebbe permesso un numero di lezioni anche maggiore delle sei, che è il numero fisso del ciclo delle Norton lectures. Mi pare quindi significativo dell’importanza che Calvino attribuiva al tema ‘consistency’ il fatto che, pur avendo già a disposizione possibilità più ampie, lo avesse scelto come motivo conclusivo del ciclo. Così come mi pare rilevante che il titolo sia espresso in inglese, ‘consistency’, parola approssimativamente traducibile in italiano con ‘coerenza’, ma più ricca in significati (in questo scritto userò tuttavia indifferentemente i due termini, inglese e italiano).
Su quali di questi può essere interessante sviluppare una riflessione? Senza la guida del testo inesistente di Calvino mi sono rivolto a un altro artista, Leonard Bernstein. Ricordo che aveva toccato il tema della ‘consistency’ nelle sue Norton Lectures del 1973 (tra l’altro disponibili in formato DVD e che raccomando a chiunque ami la musica, di qualunque genere). La quinta delle Norton Lectures di Bernstein, è intitolata “La crisi del ventesimo secolo”, nella musica come nella civilizzazione, e tratta del primo cruciale decennio (1900-1910) del secolo scorso. È il periodo incubatore del cataclisma della guerra 1914-1918, primo atto traumatico di una mondializzazione che ha coinvolto e continua a coinvolgere nei suoi sviluppi diretti tutta la civilizzazione occidentale. È di quel decennio il collasso della ‘consistency’, confortevole per il nostro orecchio, del sistema tonale dei modi maggiore e minore che aveva disciplinato la musica occidentale per tre secoli. Il sistema era stato inizialmente fortemente scosso da Wagner, come molto chiaramente testimoniano i ricorrenti passaggi dissonanti del Tristano e Isotta, e poi sollecitato fino a intermittenti estremi di anarchia cromatica nelle sinfonie di Mahler. Percepito sempre più come una gabbia che imprigionava le possibilità espressionistiche, il sistema venne abbandonato in favore dell’atonalità. L’analisi di Bernstein, che oltre a essere stato un grande musicista, sia come autore che come direttore, è stato anche un magnifico didatta, mette in luce due punti fondamentali.
Primo, l’abbandono della tonalità, e delle composizioni strutturalmente consistenti che su di essa si fondano, non sfocia in composizioni musicali costituite da sequenze di note puramente arbitrarie e aleatorie, ma subito l’uso della scala a dodici toni (dodecafonica), anziché di quella diatonica tradizionale a sette toni, fa nascere nuove regole di espressione compositiva.
In altre parole si introducono nuovi tipi di coerenza strutturale nell’ambito della stessa musica atonale, a cominciare da Arnold Schönberg.
In secondo luogo – seguo sempre il filo dell’analisi di Bernstein – la tonalità, come un centro spontaneo di attrazione, continua ad esercitare la sua forza su altri musicisti che condividevano con i primi la percezione dei limiti ormai raggiunti dal comporre tradizionale: tra questi c’è Stravinskij, che innova rinnovando completamente l’uso della tonalità col combinare simultaneamente tonalità diverse e col sovrapporre simultaneamente ritmi diversi.
Questi due punti ci offrono due significati per la ‘consistency’, che hanno un immediato riscontro nell’attività degli epidemiologi.
Da un lato la coerenza è l’insieme dei legami capaci di assicurare la configurazione interna di una struttura, quale che essa sia, e di incorporare nuovi elementi ad essa coerenti. In ambito epidemiologico è la coerenza tra le evidenze derivate dentro e tra studi su un quesito specifico, coerenza che è il fondamento indispensabile per qualunque inferenza di natura causale e quindi per qualunque successiva applicazione pratica di questa inferenza.
Dall’altro lato la coerenza è il legame che unisce una struttura a un vincolo esterno, come una partitura musicale alla tonalità di base. In ambito epidemiologico è il vincolo che àncora e deve ancorare saldamente la ricerca alla sanità pubblica.
La coerenza in epidemiologia
La coerenza nel primo significato è ben familiare agli epidemiologi ed è inclusa nelle classiche linee guida di Bradford Hill per la valutazione della natura, causale o meno, delle associazioni osservate tra fattori potenzialmente patogeni e malattie. In epidemiologia questa coerenza è un prezioso sostituto del canonico criterio scientifico della replicabilità, pura, dura e invariante, ottenibile negli esperimenti di laboratorio. Due esempi attuali sottolineano l’importanza di uno scrutinio analitico approfondito della coerenza dei risultati, che è ben più rilevante di qualunque misura dei margini di errore casuale.
Primo esempio: coerenza di studi apparentemente discordanti sul tema ‘caldo’, e tuttora aperto, rappresentato dal rischio di neoplasie, in particolare di gliomi cerebrali, per l’esposizione alle radiofrequenze dei telefoni cellulari. L’evidenza principale disponibile a tutt’oggi deriva da due studi caso-controllo: lo studio multicentrico internazionale ‘Interphone’ e un gruppo di tre studi condotti da un centro svedese, poi combinati in uno studio complessivo. Un serio problema è che a prima vista i risultati dei due studi non sono per nulla ‘consistenti’: le stime di rischio relativo dello studio svedese sono nettamente aumentate (nell’ordine di 2-3) e più elevate di quella (1,4) prodotta, unicamente per il livello più alto di esposizione, dallo studio Interphone. C’è, sottostante a questa evidente discrepanza, un qualche tipo di consistenza? E sono poi i risultati dell’uno e dell’altro studio consistenti con i trend di incidenza dei gliomi in popolazioni di cui si conoscono i dati di uso dei telefoni cellulari? Nella tabella 1 troviamo un tentativo di rispondere al primo quesito, e in effetti una rianalisi dello studio Interphone e dello studio svedese, usando criteri omogenei di classificazione dei soggetti (stessi gruppi di età) e dell’esposizione, produce risultati consistenti o almeno compatibili (Hardell et al, 2011).
Rimane un aspetto suscettibile di critica dell’evidenza emersa: che essa derivi da un’analisi fatta dal responsabile di uno dei due studi in discussione e non da ricercatori indipendenti.



D’altro canto è stato fatto un esame della consistenza tra i risultati degli studi analitici e i trend di incidenza di gliomi cerebrali in alcune popolazioni, nei paesi nordici e negli Stati Uniti, a cui si riferisce la figura 1, da cui emergono due indicazioni: i risultati dello studio Interphone sono compatibili con i trend finora osservati a livello di popolazione, mentre quelli dello studio svedese non lo sono, per lo meno per i periodi brevi di latenza (Little et al, 2012).
Conclusione: in questo problema di ovvia rilevanza per la sanità pubblica sarebbe interessante, se i ricercatori dei due studi caso-controllo non si “gratificassero” di una larga dose di diffidenza reciproca, poter avere accesso ai dati individuali ed eseguire un’analisi combinata per un esame più approfondito della loro coerenza.
Secondo esempio: coerenza tra studi randomizzati e studi osservazionali. È questo un punto ricorrente e spesso dolente dell’epidemiologia. Ogni volta che l’evidenza osservazionale diverge da quella di uno o più studi randomizzati, parte regolarmente un’ondata di saggi più o meno ben fondati che generalizzano a tutti gli studi osservazionali la critica di scarsa affidabilità. Un caso che ha fatto molto rumore è quello del trattamento ormonale sostitutivo con estroprogestinici in menopausa in rapporto a diverse patologie, tra cui la cardiopatia ischemica. Concisamente l’evidenza degli studi osservazionali andava in modo consistente nella direzione di un effetto protettivo fino a che i risultati del grande studio randomizzato ‘Women’s health initiative’ (WHI) mostrarono un effetto opposto, cioè un aumento di rischio. Tuttavia un’approfondita rianalisi di uno degli studi-chiave osservazionali, il ‘Nurses’ health study’ (NHS), che ha utilizzato un’innovativa metodologia di trattamento delle variabili temporali, indica che di fatto non vi è inversione dei risultati da uno studio all’altro e le stime dei rischi relativi, aumentati nel primo biennio dall’inizio del trattamento, sono non lontane, con intervalli di confidenza sovrapponibili (tabella 2) (Hernán et al, 2008). Il quadro diventa più complesso quando si tiene conto del momento di inizio rispetto alla menopausa, ma la compatibilità dei risultati dei due studi persiste.
Conclusione: anche se l’utilità e le indicazioni di questa metodologia non sono ancora completamente definite, dato che è stata finora applicata a pochi studi, appare evidente che uno scrutinio metodologicamente avanzato della coerenza dei risultati di diversi studi è prioritario rispetto a posizioni puramente di principio sulla validità relativa degli studi osservazionali e randomizzati.






La coerenza tra epidemiologia e sanità pubblica
Il secondo significato della coerenza è centrato sulla tensione tra l’approfondimento, in senso eziologico e soprattutto fisiopatologico di una patologia (oggi largamente possibile grazie alle tecnologie rapidamente evolventi delle varie ‘omics’: genomics, transcriptomics, proteomics, etc.), e il richiamo al vincolo dell’epidemiologia con le applicazioni pratiche, in clinica e sanità pubblica; analogamente nella musica il richiamo alla tonalità persiste anche in forme compositive contemporanee. L’articolo di Surakka et al (2011) è un esempio tra i moltissimi che vengono pubblicati quotidianamente: come dice il ‘Riassunto’, è stato messo in evidenza, nella banda 15 del braccio lungo del cromosoma 4, un locus che ha un’interazione statisticamente significativa sulla relazione tra indice di adiposità, waist-to-hip ratio, e colesterolo totale; ma quando si va a leggere la ‘Discussione’ si nota che tale modulazione di effetto contribuisce per un piccolo mezzo per cento alla variabilità del colesterolo totale. È caratteristico, e si ritrova in maniera ricorrente in articoli di questo tipo, che gli autori prospettino nel sommario che questi risultati aprono la possibilità di modulare interventi finemente individualizzati (Surakka et al, 2011), ma poi riconoscano che c’è ancora un lungo cammino da fare per comprendere come arrivarci.
La domanda che pongo è: quanto è utile che le risorse umane, intellettuali e materiali dell’epidemiologia vengano fortemente concentrate lungo questi cammini, che ormai si sono aperti praticamente per tutte le patologie? Da un lato la curiosità, che è il motore essenziale di ogni ricerca, e dall’altro la spinta della tecnologia ‘profit-driven’ possono spingere su questo cammino fino al punto in cui il richiamo alle applicazioni diviene così remoto da essere inoperante? Certamente questo tipo di ricerca va fatta, ma mi chiedo: dobbiamo formare i giovani epidemiologi a fare soprattutto questo tipo di ricerca? Molti studi mostrano che rimane ben presente in ampi settori della ricerca epidemiologica la coerenza con il vincolo delle applicazioni. In uno di questi studi, un recente lavoro italiano, l’incidenza di tumori del colon viene messa in relazione, direi in modo pragmaticamente realistico, con un indice globale di composizione qualitativa e quantitativa della dieta (indice di dieta di tipo mediterraneo) (tabella 3) (Agnoli et al, 2013).
Sicuramente la coerenza tra ricerca epidemiologica e sanità pubblica, che da sempre è stata un aspetto caratterizzante di queste due attività, ha oggi acquisito un’importanza ancora maggiore che deve orientare investimenti, linee di ricerca, formazione dei giovani e possibilità di carriera. E altrettanto sicuramente questo orientamento non può essere lasciato a sviluppi automatici senza che gli epidemiologi, che riconoscono nella coerenza con la sanità pubblica un vincolo fondamentale della loro attività, facciano sentire la loro voce.
In questo Alessandro ci ha lasciato con tutta la sua vita professionale un esempio illuminante sia di coerenza sia di efficacia. Nella sua ultima lettera al Lancet (Liberati, 2011), anziché ripiegarsi sulla propria malattia, la trasforma in un’opportunità per ricondurla al problema di interesse generale dell’orientamento della ricerca terapeutica e della macroscopica discrepanza tra quanto i ricercatori clinici fanno e quanto le patologie dei pazienti e i pazienti richiederebbero.



Queste le sue parole (tra parentesi quadre i miei commenti): “Se vogliamo che conoscenze più rilevanti [per i pazienti] divengano disponibili è necessaria una nuova strategia di governo della ricerca. Non ci si può aspettare che, lasciati a sé, i ricercatori colmino l’attuale discrepanza. I ricercatori [vorrei dire “noi ricercatori”] sono prigionieri dei loro propri interessi competitivi – professionali e accademici – che li conducono a competere per i fondi che l’industria farmaceutica mette a disposizione per studi di fasi iniziali [di nuovi e costosi farmaci] invece di farsi campioni di studi strategici head-to-head di fase 3 [cioè degli studi che mettono in diretta comparazione randomizzata differenti farmaci o protocolli misurando esiti ‘hard’ come la sopravvivenza, che è la necessità prima, ovvia, del paziente]”. Si combinano in queste sintetiche frasi una lucida e impietosa analisi della situazione dominante in tutto il mondo in uno dei settori più importanti per la clinica e la sanità in generale, la ricerca in terapia oncologica, e un’incisiva perorazione o, con il termine inglese ormai d’uso, advocacy, di un riorientamento della ricerca che non può venire dall’interno del solo mondo dei ricercatori, ma esige l’iniziativa congiunta dei poteri pubblici di regolazione e delle associazioni dei pazienti in collaborazione con l’industria farmaceutica.
Nell’orientamento della ricerca così come nel trasferimento dei suoi risultati alle applicazioni esistono per un ricercatore modalità e stili diversi di esercitare l’advocacy. Se penso a tre figure iconiche dell’epidemiologia moderna, una delle quali è stata il mio mentore, riconosco facilmente tre differenti modalità.
Richard Doll si fondava soprattutto sulla forza intrinseca di un’acutezza e razionalità scientifica decisamente fuori dall’ordinario. Doll non si impegnava direttamente nel ruolo di advocate per gli argomenti sui quali conduceva lui stesso ricerca, perché riteneva prioritario che queste due attività non interferissero tra loro. Lasciava ad altri la funzione di valutare il valore dei risultati che aveva prodotto e di decidere le azioni pratiche in conseguenza; fece quasi solo un’eccezione, il tabacco, perché – credo – riteneva che il comportamento dell’industria andasse al di là di qualunque limite di irresponsabilità sociale. Se vogliamo attaccare un’etichetta a Richard Doll, limitativa come tutte le etichette, possiamo attribuirgli quella della razionalità.
Come Conrad Keating (2009) ha ben delineato nella sua biografia di Richard Doll, il comportamento di Jerry Morris era nettamente diverso. Morris si dichiarava, ed era, di volta in volta ricercatore e advocate nel campo della sanità pubblica, anche nei settori in cui avrebbe potuto avere dei pregiudizi, in quanto compiva ricerche proprio in questi campi. L’etichetta per Morris è piuttosto quella della passione civile.
Geoffrey Rose era vicino a entrambi con una sua declinazione, che potremmo etichettare come “rigore morale”; secondo me, però, è Rose che ha sondato più in profondità i problemi della sanità nella società del nostro tempo.
Quale futuro?
C’è un passaggio, che non ho mai visto citato, nell’ormai classico libro di Rose (1992), La strategia della medicina preventiva, che illumina quanto ci può attendere in un futuro non lontano e che può semplicemente svuotare di senso tutte le parole-titolo delle lezioni di Calvino: una sorta di mutazione radicale di carattere antropologico della specie umana, che sopravviene per la forza di due sviluppi tra loro correlati. Del primo sviluppo Rose identificava molto lucidamente già più di venti anni fa la radice: la mercificazione (marketization) di ogni e tutti i rapporti interpersonali e sociali. Se è vero – come è sempre più vero – che, come scriveva Rose, il criterio essenziale di giudizio in un ambito come la prevenzione è l’efficacia nel manipolare i comportamenti individuali, non c’è da stupirsi se poi non si riesce più a distinguere tra il valore comparativo – ma di quale valore vogliamo parlare? – della legge, dell’educazione o del social marketing, spesso trainato dal profitto.
Il filosofo politico di Harvard, Michael Sandel, nel suo libro What money cannot buy The moral limits of markets (Sandel, 2012) documenta l’invasiva trasformazione di rapporti sociali in rapporti mercantili che ha avuto luogo nel corso degli ultimi trent’anni negli Stati Uniti nei settori di educazione, sanità, arti, esercito, giustizia, sport, famiglia, aree che storicamente non appartenevano o appartenevano in modo marginale alla sfera del mercato. Lo stesso fenomeno ha luogo con intensità e velocità diverse in tutte le società, sotto una spinta che appare per il momento inarrestabile, in assenza di correttivi energici di cui si vedono pochissimi segni, perché la pressione a colonizzare in modo commerciale sempre nuovi rapporti sociali tende ad aumentare in proporzione alla massa di quelli già esistenti. Ne risulta una crescita delle ineguaglianze, perché sul mercato è inevitabilmente favorito chi ha più mezzi, e una corrosione, fino alla scomparsa, dei significati non-economici di tali rapporti. Un esempio illuminante di questa scomparsa, che lascia visibile solo il mercato, si trova in un articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Alesina e Giavazzi, 2012): “Dobbiamo ripensare più profondamente alla struttura del nostro Stato sociale. Per esempio non è possibile fornire servizi gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte”. La risposta ai miei occhi è abbastanza banale: perché la messa in comune delle risorse è il mezzo tecnicamente più idoneo a garantire un servizio di una qualità uniforme per tutti i cittadini e – punto fondamentale – è l’espressione concreta del legame sociale che, solo, tiene assieme la collettività nel bene comune. Come dice concisamente Sandel: “Markets mark”, ossia i mercati non sono neutrali, ma imprimono il segno sui rapporti sociali in cui si introducono. Non sappiamo se una comunità umana, in cui tutte le dimensioni non commerciali dei rapporti sociali sono completamente, o quasi, atrofizzate, sia possibile o sostenibile; l’unica certezza è che tale civilizzazione dell’homo oeconomicus integrale ed esclusivo sarebbe antropologicamente diversa da tutte le civilizzazioni prodotte finora, lungo diecimila anni, dall’homo sapiens demens (che è la calzante definizione che il sociologo Edgar Morin dà della nostra specie: grande progresso e grandi follie).
Il secondo sviluppo, collegato al primo dal motore comune della ricerca del massimo profitto attraverso scambi unicamente economici, è la trasformazione non solo della medicina ma anche della stessa biologia della specie. Un altro recentissimo libro, scritto dal cardiologo e genetista accademico americano Eric Topol (2012), è intitolato The creative destruction of medicine: non mi pare casuale che il titolo trasferisca tal quale alla medicina la classica connotazione di Schumpeter del capitalismo come macchina di “distruzione creativa”. Sotto questa insegna il libro delinea una nuova forma di medicina chiamata “democratica” in quanto, grazie allo sviluppo di sensori miniaturizzati e collegati a software intelligenti, capaci di monitorare in continuo una miriade di parametri predittivi di salute e malattia, ogni persona sarà “democraticamente” in grado di autosorvegliarsi e anche di autotrattarsi ricorrendo all’infermiere o al medico solo in seconda istanza. A me sembra una solenne mistificazione dei concetti di salute, libertà e democrazia, in un mondo di individui forse ipocondriaci, di certo narcisisticamente fissati sul proprio corpo, funzioni ed estetica. Un amico, parlando di una collega che in anni giovanili non più vicini era molto bella, e che è ora visibilmente ritoccata secondo i canoni dell’estetica prescrittiva, ha avuto una felice espressione di gergo epidemiologico: “ She is still a beautiful woman, age-adjusted”. Quanto a “age-adjustment” anche i maschi oggi non scherzano, e in Italia se ne vedono illustri esempi. All’opposto dell’autosorveglianza sanitaria in continuo, il tratto essenziale della salute è perfettamente colto dalla formula del famoso chirurgo francese René Leriche: la salute è “la vita vissuta nel silenzio degli organi”. La salute e la sensibilità sana sono rivolte agli altri e al mondo, mentre è la malattia che spinge a ritirarci sul e dentro il nostro corpo. Nella stessa direzione dell’iter delineato nel libro di Topol va la trasformazione biologica della specie, quale prospettabile e prospettata nelle figure dei super-umani e dei trans-umani, longevi ben oltre i cento anni, che sono più a portata di braccio, se non di mano, di quanto generalmente si pensi. È questo il messaggio di Ray Kurzweiler (2005) nel suo The singularity is near, e che l’argomento abbia ormai aspetti degni di credibilità scientifica, anziché fanta-scientifica, è indicato ad esempio dalla mostra dal titolo Superhuman, tenutasi a Londra alla ‘Wellcome collection’, o dal ‘Cambridge project for existential risk’, centrato sul rischio potenzialmente derivante da esseri intelligenti interamente artificiali o ibridi. La iper-modernità ci può effettivamente portare Narciso combinato con Prometeo. Nessuno è in grado di prevedere se uniti potrebbero sfuggire, magari lasciando il nostro pianeta, divenuto nel frattempo invivibile, al destino fatale che individualmente veniva loro riservato nel mito greco.
La moglie di Calvino, nella breve prefazione alle Lezioni americane, scrive che, nel tentare diversi titoli per la versione inglese, Calvino teneva comunque fisse e immutabili le parole “for the next millennium”. Mi domando: era per scongiurare quanto temeva e sentiva venire, e cioè che quei valori descritti nel suo testo, e che desiderava duraturi, erano destinati a sopravvivere, così come la specie umana quale la conosciamo, non per un millennio ma probabilmente neppure per un secolo? Un secondo richiamo nella stessa prefazione mi ha messo ancora più a disagio: scrive la moglie di Calvino che l’unico riferimento esplicito lasciato dallo scrittore per quanto concerne il titolo Consistency è un cortissimo racconto di Hermann Melville, Bartleby the scrivener. Detto in due parole, si tratta di un diligentissimo copista di uno studio legale di Wall Street a metà Ottocento che, a ogni richiesta di fare cosa diversa dal copiare, oppone gentilmente un irrevocabile rifiuto dicendo “I would prefer not”. Di rifiuto in rifiuto rinuncia anche al cibo e viene trovato quietamente morto. Si viene postumamente a sapere che in precedenza aveva lavorato all’ufficio delle lettere smarrite e destinate alla distruzione, con tutto il loro carico di narrazioni di gioie e dolori. Debbo dire che questa breve lettura mi ha profondamente turbato. Mi ha turbato che uno scrittore con lo spirito di Calvino vi facesse riferimento per il termine consistency: perché l’unico significato possibile che io vedo nel racconto è che l’ultima, definitiva coerenza – e forse anche l’unica coerenza realmente possibile – è quella prodotta dal caso che tutti e tutto livella in un’irreversibile uniformità: tutto il resto sono solo illusioni prodotte dalla mente umana. Anche se questa fosse una corretta interpretazione, non risponderebbe, come qualunque altra posizione che conduca alla mancanza (o inaccessibilità) di senso dell’esistenza umana, al quesito fondamentale di come agire, nel pensiero e nel comportamento. Anche la più celebre ed esteticamente superba affermazione di assenza di senso, la frase pronunciata da Macbeth (nell’atto V, scena V, della tragedia eponima) è un’invettiva di fine vita: “ Life’s but a walking shadow, a poor player, / that struts and frets his hour upon a stage, / and then is heard no more; it is a tale / told by an idiot, full of sound and fury, / signifying nothing”. Prima, prospettivamente, Macbeth aveva agito, nel bene e nel male, secondo qualche criterio soggettivo, ma per lui vitale, di senso.
Il futuro è nella nostra determinazione
Per ciascuno di noi quindi il quesito cruciale è, latinamente, “Ubi consistam?” Ecco che ci viene incontro di nuovo la consistency, ma in un senso della parola più antico e più forte sia dell’inglese sia dell’italiano. La consistency nel senso di solida base di appoggio del pensare e dell’agire. Per l’epidemiologo, nella ricerca come nell’applicazione alla sanità, la base di appoggio si compone semplicemente di due elementi coerentemente legati: la ricerca della verità e la ricerca della giustizia. Scrivo volutamente verità e giustizia con l’iniziale minuscola, perché non si tratta di simulacri da glorificare retoricamente, ma di oggetti di ricerca senza fine, come quella espressa dagli innumerevoli “uomini che camminano” e instancabilmente cercano, di Giacometti: sono bellissimi nella struttura e nel senso che comunicano del ricercare infinito.
Per decenni i vari post-modernismi, relativismi, pensieri deboli, ci hanno ripetuto in modo martellante che le verità sono multiple e tra loro essenzialmente indecidibili. Non ci ho mai creduto. La ricerca della verità è come l’esplorazione a piedi di un territorio montuoso e sconfinato in cui in ogni momento tutto quello che si conosce è il ‘massimo locale relativo’. Per cui la verità è sempre parziale, perché si è esplorata solo una parte del territorio, provvisoria, perché l’esplorazione continua, ma è anche non-negoziabile, perché non tutte le cime hanno uguale altezza (anche se possono esserci incertezze per alcune cime molto vicine). È tanto banale quanto vitale rammentare queste considerazioni perché nel flusso di iper-informazione attuale, nel quale per di più informazione e disinformazione si mescolano, si può perfino perdere di vista che la ricerca scientifica è anzitutto ricerca della verità, anche se ne rappresenta solo una componente. Il criterio di verità e il test di verità basato sul quesito “contribuisce questo lavoro ad avvicinarsi alla verità?” dovrebbe (deve!) essere il primo test da superare, prioritario rispetto ai criteri di impatto delle pubblicazioni o di rendimento economico, nel momento di pianificare, condurre, interpretare uno studio e nel momento di scegliere le modalità per riferirne i risultati. Soprattutto perché, per restare nella metafora montanara, zigzagando con scaltrezza sui pendii i ricercatori possono oggi produrre un buon volume di lavori sicuramente pubblicabili da qualche parte, senza tuttavia avanzare apprezzabilmente nel cammino ascendente indispensabile a localizzare la risposta vera a un quesito scientifico.
Per quanto concerne la giustizia, è sotto gli occhi di tutti che la libertà personale di ciascuno è, soprattutto nelle nostre società economicamente avanzate, un’idea e un’aspirazione dominante.
Evidentemente non può essere ‘di ciascuno’ se non è almeno approssimativamente un’uguale libertà, un’egaliberté, nel linguaggio del filosofo francese Étienne Balibar (2010), in cui tutti gli individui pervengono a una circa eguale realizzazione di se stessi. Tra le risorse o pre-requisiti che nutrono la libertà individuale, la salute è quella fondamentale per cui – come ho già avuto occasione di scrivere – far progredire la giustizia nella salute, minimizzando le diseguaglianze tra ed entro i paesi, deve continuare a essere l’obiettivo comune e convergente di tutti i filoni dell’epidemiologia, il test più stringente del suo valore per la salute e anche la speranza che ci sostiene in mezzo a difficoltà piccole e meno piccole del nostro lavoro. Della speranza torna qui pertinente ricordare che Sant’Agostino ha detto: “La speranza ha generato due figlie: la collera contro le ingiustizie di questo mondo e la determinazione ad eliminarle”.
Sono sicuro che Alessandro avrebbe approvato il messaggio su verità e giustizia anche se lo avrebbe espresso, come era sua abitudine, non in parole ma in azioni concrete. Calvino forse sorriderebbe del mio tentativo più o meno maldestro di esegesi della sua lezione mai scritta sulla consistency. Ma spero apprezzerebbe il suggerimento di ascoltare un piccolo frammento di musica (Trio “Soave sia il vento” dal primo atto del Così fan tutte di Mozart; Elisabeth Schwarzkopf, soprano; Christa Ludwig, mezzo; Walter Berry, baritono; Karl Böhm direzione. Philarmonic Orchestra & Chorus, EMI Classics, 1962) perché è armoniosamente consistente nella molteplicità e nell’intreccio delle sue linee, rapido nel senso di conciso, esatto nella sua raffinatezza, e sublime per trasparenza e leggerezza. In altre parole questo frammento, scritto più di duecento anni or sono, è una sintesi vivente di tutti e sei i titoli dei Six memos for the next millennium di Calvino che, aggiungerei, sono stati anche tratti salienti della personalità di Alessandro.


Conflitto di interessi
Nessuno

Autore per la corrispondenza
saracci@hotmail.com

Ricevuto 17 maggio 2013; accettato 15 giugno 2013.
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Note
Questo articolo è un’anticipazione dal libro La sanità tra ragione e passione. Da Alessandro Liberati sei lezioni per i prossimi anni (Roma 2013, Il Pensiero Scientifico Editore), che raccoglie gli interventi di una giornata di studio svoltasi a Bologna il 14 dicembre 2012, con l’intenzione non solo di commemorare Alessandro Liberati, ma soprattutto di riflettere sul significato degli insegnamenti scaturiti dalla sua esperienza umana e professionale.