Contrastare gli sprechi nella pratica clinica
La necessità di idee appropriate sull’inappropriatezza
Fausto Nicolini1, Roberto Grilli2
1Direttore Generale, Azienda USL Reggio Emilia; 2 Direttore Programma Governo Clinico, Azienda USL Reggio Emilia

Riassunto. L’attuale dibattito sulle possibili soluzioni per assicurare la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale sta portando l’attenzione sul tema dell’inappropriatezza nella pratica clinica, vista come parte della più generale questione della ‘lotta agli sprechi’. L’assunzione è infatti che eliminando, o quanto meno riducendo, l’utilizzo di interventi e modalità di assistenza inefficaci, o comunque di scarso valore clinico, sia possibile recuperare risorse significative. Pur condividendo la necessità di porsi il problema, questo contributo vuole sottolineare come l’inappropriatezza sia prevalentemente interpretata sulla base di una impostazione concettuale poco incline a considerarne la complessità e sin troppo propensa a semplificare le questioni che attengono a cause, effetti e possibili rimedi all’uso inappropriato di interventi sanitari.

Classificazione JEL. I10, I18.

Parole chiave. Inappropriatezza, Servizio sanitario nazionale, sostenibilità.


Abstract. The current debate on how to assure the sustainability of the Italian National healthcare service is focusing on the issue of the inappropriate use of health services/interventions in clinical practice, within the broader context of policies aimed at reducing waste in healthcare. Indeed, the assumption is that eliminating, or reducing at least, ineffective or low-value care could save a substantial amount of resources. Although sharing the view that addressing this issue is important, this paper argues that the prevalent conceptual framework through which inappropriateness is interpreted is inadequate to fully capture its complexity, in particular as for its causes, implications and possible solutions.

JEL classification. I10, I18.

Key words. Inappropriateness, National healthcare service, sustainability.

Introduzione
La ricerca ostinata di soluzioni semplici e dirette non sempre è una buona idea in presenza di fenomeni complessi che frappongono una varietà di ostacoli tra noi e i nostri obiettivi. In queste circostanze, può essere più saggio fare i conti con questi ostacoli, rinunciare alle semplificazioni e adattarsi all’idea di intraprendere percorsi più articolati, meno diretti e apparentemente più lunghi, ma proprio per questo in grado di portarci davvero là dove vorremmo arrivare.
Questa premessa ben si adatta al tema dell’inappropriatezza nella pratica clinica che oggi un Servizio sanitario nazionale (Ssn) soffocato dai tagli alle risorse ad esso destinate, sta riscoprendo, vedendo le opportunità che potrebbero essere offerte da una sistematica lotta a questo fenomeno e ipotizzando che politiche per il suo contrasto possano essere una delle principali modalità attraverso la quale recuperare risorse e rendere il sistema complessivamente più efficiente. Tutto questo, peraltro, senza compromettere, anzi di fatto migliorando, la qualità dei servizi.
Questa rinnovata attenzione al tema dell’appropriatezza nell’uso degli interventi sanitari è certamente benvenuta e si basa su un corpo di consolidate evidenze empiriche che testimoniano, effettivamente, quanto frequentemente nella pratica clinica quotidiana le risorse disponibili siano dissipate in modalità di assistenza poco o nulla coerenti con i bisogni assistenziali dei pazienti. Da questo punto di vista, è in qualche modo non solo giustificabile, ma addirittura inevitabile, che il tema della riduzione dell’inappropriatezza rientri in una generale politica di riduzione degli ‘sprechi’ (Berwick e Hackbarth, 2012). Il fenomeno peraltro non è certamente un tratto distintivo del nostro sistema sanitario, ma rappresenta un elemento intrinseco alla pratica della medicina moderna, oggetto, da almeno tre decenni, di studi, analisi e politiche che ne hanno tentato il contrasto e la riduzione.
Tuttavia, dopo tutti questi anni, l’inappropriatezza è ancora un problema, non solo nostro, come si ricordava, ma della medicina e dei sistemi sanitari moderni ed evoluti in quanto tali. In questo senso, è proprio questa ostinata resistenza del fenomeno ai tentativi di ridurlo e la sua pervicace persistenza a dover suggerire di affrontarlo abbinando all’ottimismo della volontà un sano pessimismo della ragione. Questo ‘pessimismo della ragione’ dovrebbe innanzi tutto manifestarsi nell’evitare eccessive semplificazioni nell’approcciarlo, riconoscendone le molteplici sfaccettature e i tanti possibili determinanti, elementi che appunto sino ad oggi hanno reso sfuggevole e complesso il maneggiare questo tema e instabili e incerte — nelle modalità operative come nei risultati – le politiche pensate per il suo contrasto.
Questo contributo intende discutere le scorciatoie semplificative che traspaiono dal modo in cui il problema dell’inappropriatezza viene attualmente affrontato nel dibattito e nelle scelte operative a livello nazionale. La tentazione di semplificare la complessità e le diverse articolazioni del fenomeno in questione – tentazione riconoscibile nel modo in cui sono pensate le sue cause, i suoi effetti e possibili rimedi – può facilmente indurre a scotomizzare alcuni problemi potenzialmente rilevanti e a sovrastimare gli effetti delle politiche pensate per contrastarlo.
La semplificazione delle cause
Ovvero: basterebbe eliminare il fenomeno della medicina difensiva
Per quanto riguarda le cause, il pensiero semplificatore si manifesta nella tentazione di attribuire alla medicina difensiva la pressoché intera paternità del fenomeno, la cui genesi andrebbe quindi ricondotta all’esplosione del contenzioso medico-legale a cui i professionisti reagirebbero eccedendo in prestazioni.
Ora, non vi è dubbio che la medicina difensiva sia un problema reale e che possa certamente giocare un ruolo nel determinare l’inappropriatezza nella pratica clinica, anche se è lecito supporre che il suo peso reale sia in qualche modo sovrastimato dalle modalità con cui è stato prevalentemente indagato, largamente basate sul self-reporting (Thomas et al, 2010). In ogni caso, identificarla come causa principale rischia di portare fuori strada rispetto a una reale comprensione del fenomeno in oggetto. L’inappropriatezza appare più realisticamente come il risultato di una molteplicità di fattori – professionali, scientifici, organizzativi, sociali, economici (Rodella e Botturi, 2010) – caratteristica questa che la rende un fenomeno difficile da contrastare e certamente mai eliminabile del tutto e in modo definitivo. Non solo. L’inappropriatezza trova probabilmente la sua prima causa essenziale nella sostanziale e irriducibile asimmetria informativa che sta inevitabilmente al cuore della relazione tra medico e paziente, con il primo esposto alla tensione tra i propri interessi e quelli del secondo di cui dovrebbe essere ‘agente’ (Arrow, 1963; Evans, 1984). In questo senso, precede l’insorgere della medicina difensiva come reazione al contenzioso medico-legale 1.
Non cogliere questi aspetti e privilegiare una visione semplificata del problema porta facilmente ad avere aspettative eccessivamente ottimistiche circa gli effetti, almeno sotto questo profilo, di provvedimenti volti a ridurre il rischio professionale di contenzioso (Thomas e Ziller, 2010) e, soprattutto, a non cogliere come il contrasto all’inappropriatezza richieda una strategia di intervento articolata in grado di misurarsi con le sue diverse cause. Non solo, si rischia di perdere di vista che l’inappropriatezza rappresenta di fatto una componente organica e ineliminabile della pratica clinica: semplicemente, non è possibile pensare di sradicarla totalmente e in modo definitivo. Questo non significa in nessun modo che il suo continuo riprodursi non possa e non debba essere contrastato, ma nella consapevolezza che tali azioni di contrasto rappresentano una continua tensione alla ricerca di un equilibrio che non viene mai raggiunto in modo definitivo, una volta per tutte.
La semplificazione degli effetti
L’inappropriatezza è “fare troppo”
Vi sono altri aspetti problematici nelle politiche per l’appropriatezza – o contro l’inappropriatezza, se si preferisce – che attengono a una visione parecchio semplificata del fenomeno in questione.
Quando si parla di inappropriatezza come spreco di risorse, impiegate nell’uso di interventi dallo scarso o nullo beneficio clinico, da una parte si dice certamente una verità, ma si coglie solo un aspetto del fenomeno, dimenticandone l’altra faccia, quella rappresentata dal non utilizzo di interventi efficaci laddove e quando sarebbero invece utili. Se da una parte quindi vi sono risorse sprecate, dall’altra ve ne sono altre che non vengono impiegate, o almeno non come dovrebbero. Il ben noto fenomeno della variabilità nella pratica clinica, generalmente interpretato come documentata e tangibile testimonianza della presenza di aree di sovrautilizzo, attesta con almeno altrettanta forza la presenza anche di aree di sottoutilizzo. Da questo punto di vista, appare inadeguata l’idea che affrontare l’inappropriatezza significhi in termini operativi soltanto ‘tagliare’ risorse, risorse appunto sprecate, e non invece quantomeno riallocare le risorse esistenti, riducendo gli eccessi per sostenere invece gli ambiti dove si fa non troppo, ma troppo poco.
Peraltro, anche prendendo assolutamente per buona l’ipotesi che l’inappropriatezza sia legata in modo, se non esclusivo, almeno prevalente, alla medicina difensiva, vale la pena sottolineare come anche quest’ultima operi non necessariamente in un’unica direzione (cioè inducendo a fare di più). Un atteggiamento clinico difensivistico può indurre anche a non fare, o a fare di meno. Semplicemente questo aspetto è quello meno indagato, un po’ perché forse relativamente più difficile da far emergere, ma soprattutto perché è quello meno utile a politiche che hanno come obiettivo quello di tagliare risorse.
La semplificazione dei rimedi
Primo: servono regole
Il fenomeno della variabilità nella pratica clinica ben testimonia, nella sua duratura persistenza a dispetto di un trentennio di analisi, studi e politiche per eliminarlo, sia la persistente esigenza di indirizzare i comportamenti professionali verso un uso più razionale delle risorse, sia il carattere non risolutivo delle politiche adottate per il suo contrasto (Appleby et al, 2011; Wennberg, 2011; Mays, 2011; Mercuri Gafni, 2011; Neuhauser et al, 2011). Queste ultime si trovano di fatto di fronte a due opzioni fondamentali (e non mutualmente esclusive): intervenire sui volumi di attività, preservando la discrezionalità clinica, o decidere di influenzare in qualche modo le decisioni che vengono adottate nei singoli pazienti.
La prima opzione, quella che agisce con politiche che disincentivano il ricorso alle prestazioni laddove esse appaiono in eccesso, trova i propri limiti nel fatto che purtroppo le conoscenze ad oggi disponibili non consentono di dare in alcun modo per scontato che la riduzione dei volumi di attività laddove in eccesso porti necessariamente a un aumento dell’appropriatezza, dal momento che una semplice relazione lineare tra queste due dimensioni non è stata chiaramente dimostrata (in altri termini, non è dimostrato che dove si fa troppo la percentuale di prestazioni inappropriate sia maggiore) (Keyhani et al, 2012).
Quindi, se si vuole davvero influenzare la qualità delle prestazioni incrementando la quota di utilizzo appropriato di procedure e interventi, si è in qualche modo costretti ad intrudere in quella dimensione problematica rappresentata dalla discrezionalità clinica, cercando di resistere alla tentazione che sia possibile governare la pratica clinica attraverso il sistematico ricorso a regole con cogenza normativa, che i medici siano tenuti a rispettare.
Questa opzione presenta infatti numerosi aspetti problematici che vanno al di là della questione, in questa sede volutamente tralasciata, del ‘come’ tali norme e regole dovrebbero essere elaborate per essere il più possibile coerenti con le conoscenze scientifiche disponibili.
Ci concentriamo sul tema essenziale, appunto l’ipotesi che le decisioni cliniche da adottare nell’assistenza a singoli pazienti siano governabili dall’esterno attraverso la formulazione di indicazioni d’utilizzo per prestazioni e procedure che abbiano valore normativo.
Il primo ovvio aspetto problematico è rappresentato dall’implicazione di una standardizzazione dei processi assistenziali che ci si chiede come possa prevedere e tenere adeguatamente conto delle inevitabili specificità dei singoli pazienti. È bene ricordare a questo proposito come sia stato già evidenziato che linee guida, anche di buona qualità dal punto di vista delle modalità della loro elaborazione, difficilmente riescano a tenere conto nelle loro raccomandazioni dell’estrema variabilità delle reali condizioni cliniche di pazienti con specifiche patologie (Boyd et al, 2005; Tinetti et al, 2005; Montori et al, 2013). Non solo, un approccio così intrusivo alle linee guida rischia di stimolare una conflittualità permanente tra la componente clinica dei servizi e quella manageriale, la prima chiamata a operare secondo procedure standardizzate con minimi margini di autonomia decisionale, la seconda chiamata a verificarne continuamente l’effettiva adozione nelle singole decisioni cliniche adottate. È possibile immaginare che questo processo di ‘standardizzazione’ porti a peggiorare la qualità dell’assistenza, vincolando gli operatori a una eccessiva rigidità con l’adozione di comportamenti predefiniti, perdendo di vista le specificità cliniche, le preferenze/aspettative del singolo paziente.
Questo ragionamento non deve indurre a pensare che non debbano essere adottati strumenti per indirizzare in senso appropriato le decisioni cliniche. Il punto chiave è come trovare un equilibrio tra l’esigenza di indirizzare decisioni e comportamenti clinici verso una maggiore appropriatezza e rispetto di quel grado di discrezionalità indispensabile a una pratica professionale legittimamente sensibile alle specificità dei singoli pazienti. Essendo gli sprechi nella pratica clinica rappresentati non solo dall’uso di interventi di dimostrata inefficacia, ma soprattutto, e in misura ben più consistente, dal ricorso ad interventi efficaci in indicazioni cliniche non idonee (inappropriate, appunto) (Elshaug, 2013), pensare di affrontare il problema ricorrendo in modo sistematico a indicazioni di comportamento clinico con valore e cogenza normativa significa rischiare di ritrovarsi con una selva di regole di difficile monitoraggio e verifica applicativa e, in definitiva, di probabile inefficacia.
In sostanza, la complessità del fenomeno con cui abbiamo a che fare rende inevitabile preservare quel grado di necessaria discrezionalità che è componente importante della qualità clinica (Appleby et al, 2011; Wennberg, 2011) e quindi richiede il ricorso a strategie di contenimento dell’inappropriatezza che mantengano un grado significativo di fiducia e responsabilizzazione nei confronti dei professionisti, visti non solo come destinatari di regole e norme da applicare.
La semplificazione dei rimedi
Secondo: la leva economica come scorciatoia
L’idea che la lotta agli sprechi nella pratica clinica debba portare rapidamente a risultati tangibilmente significativi induce quasi inevitabilmente ad individuare nella leva economica una soluzione per ottenere in tempi brevi i cambiamenti desiderati. Diversi studi mostrano come i comportamenti clinici possano essere sensibili a questo tipo di strumenti, ma con effetti spesso quantitativamente meno significativi di quanto atteso e di durata limitata (Gillam et al, 2012; Misfeldt et al, 2014). In generale, la relazione tra incentivazione economica e comportamento professionale appare più complessa di quanto si potrebbe supporre, a partire dalla non scontata ‘linearità’ di questa relazione, tale per cui non è necessariamente vero che al crescere dell’incentivo cresca parimenti l’effetto atteso sul comportamento professionale target. Esiste, in altri termini, un livello soglia oltre al quale l’incentivazione perde di efficacia, ad esempio per avere il professionista raggiunto il proprio desiderato livello di remunerazione economica. Inoltre quella economica è solo una delle tante leve motivazionali che ispirano i comportamenti professionali. I professionisti hanno proprie motivazioni ‘intrinseche’ al miglioramento, oltre che un proprio codice morale che induce a “fare la cosa giusta” in qualche misura a prescindere dalla retribuzione economica percepita. Da questo punto di vista, un ricorso troppo intensivo e indiscriminato all’incentivazione economica produce l’effetto negativo di monetizzare comportamenti che hanno invece la propria radice motivazionale nell’etica della professione (Le Grand, 2003; Marshall e Harrison, 2005).
Vale forse la pena anche sottolineare come le ormai numerose esperienze internazionali sul tema si siano concentrate sull’uso della leva economica in senso positivo (ti premio se ottieni determinati risultati o adotti correttamente determinati processi assistenziali) piuttosto che negativo, come invece ci si appresta a fare nel nostro contesto nazionale, prevedendo che i medici responsabili di prescrizioni giudicate inappropriate subiscano appunto una penalizzazione economica2. Le motivazioni di questa maggiore attenzione al ‘premio’ piuttosto che alla ‘punizione’ economica sono ovviamente rappresentate dal ritenere la seconda particolarmente foriera di conflittualità. Da questo punto di vista, i potenziali benefici economici derivanti da una riduzione delle prescrizioni inappropriate, dovrebbero essere valutati contestualmente ai costi (non necessariamente economici, ma non per questo necessariamente meno rilevanti) sul piano delle relazioni interne al sistema.
Uno dei pochi esempi rintracciabili in letteratura di ricorso alla leva economica in chiave punitiva anziché premiante è rappresentato dalla politica adottata dal Ministero della sanità dell’Ontario per migliorare l’appropriatezza delle prescrizioni di risonanze magnetiche della colonna lombare (Kennedy et al, 2014).
In quella circostanza il perseguimento dell’obiettivo ha previsto l’elaborazione di linee guida, la loro diffusione, la facilitazione del loro impiego nella pratica clinica attraverso la messa a disposizione dei professionisti di strumenti informatizzati che indirizzavano verso la prescrizione corretta e, infine, la penalizzazione economica dei medici responsabili di una prescrizione inappropriata, chiamandoli a rispondere in solido del costo dell’esame inutile richiesto.
Chi ha valutato l’impatto di tutto questo ha osservato, nella fase successiva all’implementazione delle politiche sopra descritte, una non particolarmente esaltante riduzione del 10% della quota di risonanze magnetiche prescritte inappropriatamente (Kennedy et al, 2014). Risultato appunto non eclatante e non necessariamente ascrivibile per intero a un effettivo miglioramento della qualità delle prescrizioni. Inoltre, in quel contesto la minaccia della penalizzazione economica è stata adottata nel quadro di un insieme di altre azioni di carattere supportivo e di sostegno ai professionisti, finalizzate a facilitare l’adozione del comportamento desiderato (si trattava quindi di una sorta di extrema ratio) e, soprattutto, significativamente non risulta che nessun medico sia in pratica mai stato davvero chiamato a rispondere economicamente della propria inappropriata prescrizione (Kennedy et al, 2014). Questo fa pensare che il costo della conflittualità che quasi certamente sarebbe stata scatenata da una sistematica applicazione di quella norma sia stato giudicato superiore a quello delle risonanze in eccesso.
In sintesi, il ricorso all’incentivazione o penalizzazione economica pone questioni problematiche anche sul piano delle relazioni tra un sistema sanitario e i suoi professionisti, questioni sulle quali varrebbe forse la pena riflettere anche considerando altre forme di incentivazione non necessariamente e esclusivamente economiche (Misfeldt et al, 2014), che sappiano far leva su quelle motivazioni intrinseche e su quei valori dei professionisti che è lecito assumere debbano essere parte integrante dell’identità di chi opera nel Servizio sanitario nazionale.
Considerazioni conclusive
Il nostro tentativo di evidenziare gli aspetti problematici circa il modo in cui si pensa di affrontare l’inappropriatezza non dovrebbe essere interpretato come un esercizio accademico, e nemmeno come lo sterile impegno di chi si esercita nella pratica, per la verità anche un po’ sgradevole, di mettere ad ogni costo i “puntini sulle i”, sottolineando come ci sia sempre e comunque “ben altro” da fare.
Siamo peraltro consapevoli che le politiche sono sempre alla disperata ricerca di soluzioni semplici, e che le politiche sanitarie non fanno certo eccezione a questa regola generale.
Tuttavia ci si sono circostanze in cui ricercare la semplificazione ad ogni costo, a dispetto della complessità dei problemi da affrontare, porta a soluzioni in tutto o in parte sbagliate, genera illusioni e aspettative eccessive (Willson, 2015). Ci sono, in sostanza, sempre alcune implicazioni che derivano dal modo i cui le questioni da affrontare sono concettualizzate e interpretate.
Queste pagine sono in questo senso un – certamente imperfetto – tentativo di sottolineare le eccessive semplificazioni che si intravvedono nel modo in cui il tema dell’inappropriatezza nella pratica clinica viene oggi affrontato.
Quali sono le loro implicazioni?
La prima è che le pratiche professionali che qualifichiamo come ‘sprechi’ rappresentano un problema sistemico da tutti i punti vista, nei loro determinanti, negli attori che chiamano in causa, nelle conseguenti modalità con cui dovrebbe essere affrontato. Persino atti clinicamente semplici, almeno in prima approssimazione, quali la prescrizione di un test di imaging possono essere visti come determinati anche dal contesto generale in cui il professionista sanitario si trova ad operare: secondo i dati Ocse il nostro paese ha una densità di TAC e risonanze che pare eccedere largamente i bisogni effettivi e ha pochi eguali quando confrontata con altre nazioni, una situazione che è conseguenza di inadeguate politiche di governo del sistema e che evidentemente moltiplica le opportunità di prescrizioni non necessariamente appropriate (Oecd, 2013).
In questo senso, i professionisti sono ovviamente un elemento fondamentale e imprescindibile, ma non possono essere l’unico esclusivo target di politiche di contrasto all’inappropriatezza.
In secondo luogo, l’inappropriatezza richiederebbe un ripensamento complessivo in merito alle relazioni con i professionisti, che non possono essere pensate soltanto secondo logiche punitive e nemmeno probabilmente orientate in modo esclusivo all’impiego della sola leva economica come stimolo ai cambiamenti necessari. Peraltro, l’adozione di logiche punitive nel nostro contesto dovrebbe considerare di avere come target operatori che rischiano di essere già particolarmente demotivati dal perdurare del blocco delle retribuzioni, dal blocco del turnover e dall’insieme delle difficili condizioni in cui i servizi si trovano ad operare. In altri termini, il rischio è quello di ritrovarsi con un corpo professionale poco motivato, proprio quando il sistema avrebbe maggiormente bisogno di poter contare sul suo impegno e la sua dedizione.



Uno sguardo oltre i nostri confini al panorama internazionale evidenzia oggi una grande attenzione verso la costruzione di relazioni che sappiano promuovere una responsabile partecipazione dei professionisti alla vita delle organizzazioni sanitarie, viste non soltanto come il luogo fisico in cui essi mettono in pratica le rispettive capacità e competenze tecniche e scientifiche, ma come comunità alla cui vita e al cui sviluppo sono motivati a partecipare. È il tema generale di quello che viene definito clinical engagement (Clark e Nath, 2014; Kaissi, 2014), la cui potenziale rilevanza è motivata dalla non risolutiva efficacia dei tanti strumenti sin qui adottati (dall’esortazione al buon comportamento con le linee guida, ai sistemi di comando e controllo, dagli incentivi economici alla competizione, fino al benchmarking reputazionale attraverso l’accreditamento professionale e la pubblicizzazione degli esiti) per indurre una continuativa e sistematica attenzione alla qualità dei servizi e al loro miglioramento (Gray, 2004). In altri termini, si riconosce che, al di là dei possibili vantaggi offerti da ciascuna delle opzioni citate su specifici e puntuali ambiti, il carattere sistemico del tema della qualità e dell’appropriatezza nella pratica clinica è tale da richiedere comunque un ripensamento complessivo delle modalità relazionali che legano un professionista alla propria organizzazione. In questo senso, investire in questo ambito significa oggi essenzialmente riconoscere che una politica di miglioramento della qualità nel Ssn richiederebbe un’elaborazione a partire da una analisi su “come stanno” i nostri operatori nelle aziende sanitarie; quale tipo di relazioni hanno con il management aziendale; quali sono, se vi sono, ambiti in cui sono apertamente sollecitati a farsi carico dei temi della qualità e della sicurezza delle cure (Prenestini et al, 2015). Sono temi, questi ultimi, ai quali peraltro i nostri professionisti sono tutt’altro che insensibili, come viene testimoniato dall’attenzione che il tema del “fare di più non significa fare meglio” pare aver sollecitato tra società scientifiche di diverse specialità a livello nazionale (Vernero et al, 2014) così come a livello internazionale (Levinson et al, 2015; Malhotra et al, 2015).
Infine, la questione degli sprechi, quando contestualizzata alla pratica clinica, pone in evidenza problemi del tutto diversi (e per certi aspetti molto più complessi) di quelli riscontrabili in altri contesti. Questo per le caratteristiche peculiari dei processi che devono essere esaminati e modificati, per la natura dei soggetti in campo, per la complessità stessa insita nell’esprimere una valutazione su quegli stessi processi e sui loro risultati. Qui, in questo contesto, una logica di individuazione di quel che potremmo definire “spreco” improntata a un’efficienza produttiva sarebbe altamente indesiderabile, dal momento che rischierebbe soltanto di indurci a diventare più bravi nel fare cose inutili o dannose.
Il problema da porsi è dunque come mettere un sistema (e non soltanto i singoli professionisti) nelle condizioni di massimizzare le proprie capacità di individuare le risposte più idonee (cioè appropriate) a bisogni assistenziali, un problema che trascende ampiamente l’esigenza di ‘risparmiare’ risorse e che rimanda direttamente a quella che altro non è se non la finalità essenziale e primaria di un sistema sanitario. A dispetto della loro pervasività, non è affatto detto che i volumi di risorse assorbiti da pratiche cliniche inappropriate siano necessariamente significativi (Schwartz et al, 2014; Colla et al, 2015), ma questo non rende in nessun modo meno necessario porsi comunque il problema di contrastarle.
Anche per queste ragioni quindi sarebbe utile riconoscere che contrastare l’inappropriatezza non significa soltanto ridurre le risorse, ma anche investirne di nuove. Il pensare che operare per migliorare l’appropriatezza nella pratica clinica significhi oggi per il Ssn poter ridurre le risorse utilizzate per il proprio funzionamento operativo è forse la più pericolosa delle illusioni indotta dall’insieme delle semplificazioni con cui il tema dell’inappropriatezza appare affrontato.
Al contrario, una coerente politica di effettivo contrasto all’inappropriatezza richiederebbe investimenti sostanziali. Si tratterebbe infatti di migliorare grandemente le capacità informative del Ssn circa le effettive modalità di impiego di servizi e prestazioni sanitarie, per cominciare a rendere l’appropriatezza nella pratica clinica una dimensione effettivamente misurabile e quantificabile . Non solo, ci sarebbe da operare per lo sviluppo di una tecnostruttura del Ssn all’altezza – anche dal punto di vista dell’autorevolezza e della credibilità scientifica – della sfida, con istituzioni e centri nazionali in grado di produrre raccomandazioni di comportamento clinico basate sulle migliori conoscenze scientifiche, avvalendosi anche della rete nazionale degli Irccs per promuovere una politica della ricerca che individui anche nella promozione dell’appropriatezza nella pratica clinica uno dei propri ambiti di interesse (per esempio, sostenendo attività di ricerca finalizzate a ridurre l’incertezza circa la reale efficacia e costo-efficacia degli interventi, ad analizzare i determinanti dell’inappropriatezza nella pratica clinica, a valutare l’impatto di interventi di miglioramento della qualità dell’assistenza, etc).
In conclusione, visto in questi termini e dalle prospettive che abbiamo proposto, il tema dell’inappropriatezza si pone non tanto e non solo come una questione di risorse da tagliare, ma appunto di risorse da riallocare, laddove la parola ‘risorse’ dovrebbe indicare non soltanto quelle materiali e economiche, ma anche quelle intellettuali, queste ultime a sostenere una rinnovata capacità elaborativa che sappia essere all’altezza delle sfide che il Ssn deve affrontare. Fare programmazione sulla base dei bisogni, allocare le risorse sulla base di priorità, disinvestire laddove si ricorra a modalità di assistenza di scarso o nullo valore clinico per riallocarle dove invece sarebbero necessarie per promuovere effettivamente una sanità di valore (Gray, 2008), sono tutti obiettivi ambiziosi ma necessari per mantenere sostenibile un sistema sanitario pubblico, universale, equo e di qualità. Tutti richiedono anche il coinvolgimento e la responsabilizzazione della componente clinica e professionale. Provando nuove e difficili strade che propongano e consolidino un’alleanza tra i diversi attori (decisori, manager, clinici, cittadini), superando storiche diffidenze (per esempio, tra la componente manageriale e quella professionale) e condividendo prima di tutto principi e valori.


Conflitto di interessi Nessuno

Autore per la corrispondenza
Roberto Grilli, grillir@ausl.re.it
Ricevuto 19 settembre 2015; accettato 23 settembre 2015.
Note
1Basti ricordare Bernardino Ramazzini che già nel 1713 affermava: “C’è una categoria di medici che ordina cure anche per malattie brevi che guarirebbero da sole. Dapprima propina lenitivi, poi eccitanti, sciroppi di cui sarebbe doveroso non conoscere l’esistenza, indi purganti, ripetuti salassi e mille altri fastidi, tutto secondo il principio: non passi giorno senza che sia stata prescritta una nuova ricetta” (Appleby et al, 2011). Oppure nel 1904 quando G Bernard Shaw scrive nel Dilemma del dottore: “Facendo dei dottori dei commercianti li costringiamo a imparare i trucchi del commercio; di conseguenza troviamo che le mode dell’anno includono cure, operazioni, particolari medicine, proprio come cappelli, macchine, balli e giochi. Tonsille, appendici vermiformi, ovaie sono sacrificate perché è di moda estirparle e perché l’operazione è molto vantaggiosa”. Concetto poi ripreso alcuni anni dopo nel 1923 da J Romains nell’opera teatrale Knock ovvero il trionfo della medicina, dove compare in forma tragicomica la sottile arte di far sentire malati i sani da parte del protagonista. Per arrivare a Ivan Illich nel 1977, che in Nemesi medica arriva provocatoriamente ad affermare contro la presunta onnipotenza della medicina: “La professione medica è diventata una minaccia notevole per la salute”.
2Nel momento in cui scriviamo non è ancora dato sapere le forme concrete di questa penalizzazione (su quale componente della retribuzione? di quale entità?). Nemmeno sono note le modalità applicative: quale frequenza di ‘inappropriatezza’ farà scattare la penalizzazione?
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