Il futuro delle cure primarie e della medicina generale

Gavino Maciocco

Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze

Ricevuto su invito il 28 ottobre 2024

“La medicina di base in Italia è in crisi da molti anni, ancorata a vecchi modelli culturali e incapace di riformarsi. Soffre di una crisi di identità, aggravata dalla crescente scarsità di medici sul territorio e dal ricambio generazionale, nel quale i giovani sembrano ispirarsi a nuovi sistemi di valore. È in grave ritardo rispetto all’evoluzione avvenuta in altri paesi europei, che hanno seguito modelli centrati sulla medicina di gruppo e l’integrazione con altri professionisti. La pandemia di covid-19 ha svelato le debolezze della prima linea di cura – peraltro eroica nel sacrificio dei suoi medici – e le difficoltà di risposte efficaci, ma come da ogni crisi, la medicina di base potrebbe uscirne rigenerata.”

Questo è l’incipit del saggio dedicato all’assistenza primaria in Italia, e pubblicato in questo numero di Politiche sanitarie (Mapelli, 2024), che – come suggerisce il titolo – copre il vasto arco temporale che va dal 1943 (nascita dell’Inam) ai giorni nostri. L’autore, Vittorio Mapelli, descrive la storia della medicina di base in Italia nelle sue varie fasi, indicando alla fine i possibili, auspicabili sviluppi. Come si legge nell’introduzione, la pandemia ha messo a nudo tutte le debolezze della medicina generale, a partire dalla sua arcaica organizzazione. Una crisi che poteva, anzi doveva, trasformarsi in un’opportunità di crescita e di rinnovamento e che invece – a osservare quello che sta succedendo in questi tempi al Servizio sanitario nazionale – rischia non solo di essere persa, ma anche di relegare sempre più la medicina generale ai margini del sistema.

A conclusione dell’articolo, Mapelli si sofferma con ampia dovizia di particolari sulle case della comunità (Cdc). “Le Cdc sono la naturale evoluzione e la nuova denominazione data dal Pnrr alle case della salute (Cds). La loro organizzazione è stata disciplinata dal recente d.m. Salute 77/2022”. Il d.m. 23 maggio 2022, n. 77 (Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale) doveva rappresentare nelle intenzioni del governo di allora (primo ministro Mario Draghi, ministro della salute Roberto Speranza) una nuova cornice strategica dell’assistenza territoriale. Contiene tra l’altro la definizione di una serie di standard riguardo a strutture edilizie e servizi, ma la parte più impegnativa e innovativa è contenuta nei punti ٣ e ٤ dell’allegato 1, dove si rilancia l’idea (abbandonata da tempo) del distretto (punto 4), quale “luogo privilegiato di gestione e di coordinamento funzionale e organizzativo della rete dei servizi sociosanitari a valenza sanitaria e sanitari territoriali. È inoltre deputato, anche attraverso la casa di comunità, al perseguimento dell’integrazione tra le diverse strutture sanitarie, in modo da assicurare una risposta coordinata e continua ai bisogni della popolazione, l’uniformità dei livelli di assistenza e la pluralità dell’offerta”. Insieme alla cornice organizzativa (affidata al servizio pubblico), il d.m. 77 individua anche le strategie per affrontare la questione più importante che, in tutto il mondo, i servizi sanitari e sociali si trovano ad affrontare, l’epidemia delle malattie croniche (Horton, 2005). “La sanità di iniziativa – si legge al punto 3 – è un modello assistenziale di prevenzione e di gestione delle malattie croniche orientato alla promozione della salute, che non aspetta l’assistito in ospedale o in altra struttura sanitaria, ma lo prende in carico in modo proattivo già nelle fasi precoci dell’insorgenza o dell’evoluzione della condizione morbosa. Lo scopo della sanità di iniziativa è la prevenzione e il miglioramento della gestione delle malattie croniche in ogni loro stadio, dalla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce, alla gestione clinica e assistenziale, alla prevenzione delle complicanze, attraverso il follow-up proattivo anche supportato dagli strumenti di telemonitoraggio e telemedicina, alla presa in carico globale della multimorbosità”.

L’attuale governo Meloni non ha mai preso in seria considerazione il d.m. 77, anzi, per voce del sottosegretario alla salute, Marcello Gemmato, l’ha apertamente e ripetutamente osteggiato particolarmente nella parte delle case della comunità (Quotidiano sanità, 2022; Farmacista/33, 2022), a cui – a detta del sottosegretario, farmacista di professione – sarebbe da preferire una rete di “farmacie dei servizi” (federfarma, 2023). Ma, a parte le dichiarazioni di un sottosegretario (in pieno conflitto di interessi) e la legge sull’autonomia differenziata (che, se applicata, aggraverebbe le già intollerabili diseguaglianze nella salute all’interno del paese), il governo non ha alcuna strategia sulla sanità, se non quella di favorire la progressiva privatizzazione della sanità italiana e il ricorso a varie forme di assicurazione privata a fronte di un progressivo indebolimento dei servizi pubblici e di un allungamento mostruoso delle liste di attesa. L’epidemia delle malattie croniche può continuare a dilagare, ben sapendo che su questa partita si gioca la salute di milioni di persone, l’economia delle tante famiglie – che devono pagarsi visite, esami e badanti – e, nel suo piccolo, anche il futuro delle cure primarie e della medicina generale. Peraltro su questi temi si erano pronunciati – già prima della pandemia – autorevoli esponenti politici della ‘destra’.

“Nei prossimi 5 anni mancheranno 45.000 medici di base, ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti? (…) Tutto questo mondo qui, quello del medico di cui ci si fidava anche, è finita anche quella roba lì”. Siamo al meeting di Comunione e Liberazione, Rimini domenica 25 agosto 2019, e Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario e numero due della Lega, si esprime così sul destino della medicina di famiglia, tra il serio e faceto, come Arlecchino che dice la verità burlando (Maciocco, 2020). “Quella roba lì”, la medicina di famiglia in particolare e le cure primarie in generale, è da anni che in Lombardia tentano di annientarla, in parte riuscendoci. Infatti tutti i servizi sanitari e sociosanitari territoriali di comunità, dall’assistenza infermieristica a quella riabilitativa, sono stati esternalizzati e privatizzati. La medicina di famiglia è stata in parte protetta dal contratto nazionale di categoria, e i cittadini lombardi hanno potuto continuare a scegliere il loro medico di fiducia. Tuttavia la struttura organizzativa del territorio si è fortemente indebolita e non sono mancati negli anni ripetuti tentativi per renderla più precaria e inefficiente.

Con l’acronimo CReG (chronic related group) la Regione Lombardia lancia nel 2011 un progetto il cui obiettivo dichiarato è quello di migliorare le condizioni di vita dei cittadini affetti da patologie croniche. Gli obiettivi “non dichiarati” erano altri:

a. tenere fuori dalla partita della cronicità i medici di medicina generale (Mmg), ritenuti non idonei allo scopo;

b. portare dentro la partita ogni tipo di provider, con un occhio di riguardo ai provider privati, (ospedali compresi, come il San Raffaele) in grado di gestire percorsi assistenziali complessi remunerati attraverso un sistema di budgettizzazione forfettaria simile ai Drg ospedalieri (Maciocco, 2017; Gazzetti e Barbato, 2017).

Più o meno nello stesso periodo in Toscana nei confronti delle patologie croniche veniva intrapreso un percorso che andava in direzione opposta a quello lombardo. Il Piano sanitario regionale 2008-2010 pone come priorità strategica la sanità d’iniziativa. “La sanità d’iniziativa intesa come modello assistenziale per la presa in carico, costituisce, nell’ambito delle malattie croniche, un nuovo approccio organizzativo che affida alle cure primarie l’ambizioso compito di programmare e coordinare gli interventi a favore dei malati cronici. Il modello operativo prescelto, il Chronic care model (Ccm), è basato sull’interazione tra il paziente, reso esperto da opportuni interventi di formazione e di addestramento, e il team multiprofessionale composto da operatori socio sanitari, infermieri e Mmg” (Regione Toscana, 2008).

Nel 2008 si tenne la Conferenza di consenso La medicina d’iniziativa sul territorio: i ruoli professionali, durante la quale si sviluppò il concetto del team territoriale multiprofessionale con il pieno riconoscimento del ruolo indipendente ma coordinato dell’infermiere distrettuale, a fianco del medico curante, nella gestione dei pazienti con malattie croniche. Nello stesso anno, il Consiglio sanitario regionale individuò le quattro malattie croniche sulle quali intervenire prioritariamente e definì i relativi percorsi diagnostici terapeutici. A inizio 2009 fu siglato un accordo con la medicina generale che definiva criteri e fasi di attuazione del progetto, il sistema di valutazione e di incentivazione economica per la medicina generale. Nel corso nel 2009 fu effettuata una formazione multiprofessionale, rivolta a tutte le figure professionali coinvolte nella fase di avvio del progetto, con particolare enfasi sulle modalità di lavoro in team, e una formazione monotematica, rivolta agli infermieri, incentrata soprattutto sui temi del supporto all’autocura e counselling, con il coinvolgimento di circa 1.000 Mmg e 200 infermieri.

Il progetto prese il via agli inizi del 2010. La nuova organizzazione prevedeva l’istituzione di moduli Ccm, composti da dieci Mmg e due infermieri distrettuali, la creazione di elenchi di patologia, ovvero le liste dei pazienti affetti dalle malattie croniche oggetto dell’intervento (diabete, scompenso cardiaco, Bpco e pregresso ictus-Tia), l’organizzazione di visite programmate alle quali i pazienti erano richiamati proattivamente.

Al progetto parteciparono 11 delle 12 aziende Usl allora esistenti. In queste aziende, l’adesione al progetto da parte dei Mmg avvenne su base volontaria. A una fase pilota, seguirono più fasi di estensione. A fine 2013 erano stati coinvolti 1.187 Mmg (43% dei Mmg della Regione Toscana) con una copertura del 46% della popolazione residente 16+ e un totale di circa 95.000 pazienti con diabete, assistiti da un Mmg aderente al progetto. L’implementazione del progetto fu tempestivamente accompagnata da un monitoraggio affidato a più soggetti. In primis, il livello distrettuale, che aveva anche il compito di facilitare i rapporti tra i moduli Ccm e specialisti delle varie discipline. Va rilevato che in quel periodo i distretti si stavano progressivamente dotando di Cds: da una rilevazione effettuata nel luglio 2015 si contavano in Toscana 46 Cds, in 42 delle quali operavano moduli Ccm (Brambilla e Maciocco, 2016). A livello dell’Assessorato regionale venne istituita la Commissione regionale di monitoraggio sull’attuazione della sanità d’iniziativa (Cormas). L’agenzia MeS dell’Università Sant’Anna di Pisa, coinvolta nella rilevazione della soddisfazione degli utenti, effettuò un’indagine telefonica tra i pazienti presi in carico dai moduli Ccm della fase pilota della sanità di iniziativa per indagare l’esperienza e gli esiti di salute direttamente dalla voce degli assistiti. Il 73% dei pazienti dichiarò che l’assistenza complessiva era migliorata e che erano in grado di gestire meglio la propria malattia. Il 67% dei pazienti dichiarò che il loro stato di salute era migliorato (Murante, 2012).

Una valutazione d’impatto quantitativa della sanità d’iniziativa fu condotta dall’Agenzia regionale di sanità attraverso rigorose metrologie epidemiologiche. Furono particolarmente studiati gli impatti sui pazienti con diabete e con scompenso cardiaco cronico. I risultati, aggiornati al 2014, mostrarono eclatanti miglioramenti dei tassi di adesione alle raccomandazioni cliniche e degli esiti di salute.

• Nei diabetici assistiti da MmG aderenti, il composite guidelines indicator migliorò del 58%, il tasso di eventi cardio-cerebrovascolari acuti diminuì del 19% e la mortalità a quattro anni del 12% (Barletta et al, 2017; Profili et al, 2017).

• Anche nei pazienti con scompenso cardiaco aumentarono i livelli di adesione alle raccomandazioni cliniche e la mortalità a quattro anni diminuì del 17%. Per entrambe le popolazioni di assistiti, si registrò anche un aumento del consumo di prestazioni sanitarie territoriali e, per alcune cause, un aumento di ricoveri ospedalieri (Francesconi et al, 2019; Ballo et al, 2018).

Il cambiamento più radicale di paradigma della medicina generale – il passaggio da una medicina d’attesa a una medicina di iniziativa – indicato da Mapelli come obiettivo di medio-lungo periodo si era dunque già realizzato in Toscana, diversi anni prima della pubblicazione del più volte citato Libro azzurro (Cicognani e Welisch, 2021), che condivido dalla prima all’ultima pagina e al cui progetto ho ben volentieri collaborato, attingendo proprio dall’esperienza sul campo in Toscana. La politica sanitaria toscana ha avuto il merito di attivare interventi innovativi e decisamente efficaci nel controllo delle malattie croniche e, successivamente, il demerito di averne provocato il fallimento. Infatti, a partire dal 2016, la sanità d’iniziativa è stata abbandonata in coincidenza o come conseguenza di una serie di scelte insensate degli amministratori regionali toscani (Francesconi et al, 2024).

Nel maggio 2005 la Regione Toscana organizzò a Firenze un convegno dal titolo Vecchie malattie. Nuove risposte. Modelli innovativi per l’assistenza alle malattie croniche. Per l’occasione fu invitato a tenere la lecture introduttiva Edward H Wagner, professore emerito di Public health all’Università di Washington e ‘ideatore’ del Ccm (Bodenheimer et al, 2002a e 2002b). Il titolo della lecture era assai suggestivo: Chronic care and the future of the primary care. Il futuro delle cure primarie (e della medicina di famiglia) dipende dalla capacità di affrontare efficacemente il fenomeno della cronicità. La ricetta che Wagner propone si basa su alcuni punti fondamentali. Al centro c’è il dialogo con i pazienti e il coinvolgimento della comunità, in una prospettiva di sanità pubblica e di prevenzione. Il primo obiettivo è quello di formare pazienti in grado di gestire autonomamente la propria patologia e di diventare pazienti esperti in grado di trasmettere ad altri soggetti le loro abilità. L’altro punto centrale riguarda le caratteristiche del team, i cui valori di riferimento dovranno essere quelli della collegialità, della condivisione delle informazioni, delle responsabilità e delle strategie di cura – come la proattività, le relazioni e la presa in carico a lungo termine dei pazienti – per stabilire con loro solidi e duraturi rapporti di fiducia.

Molti anni dopo, nel 2017, mi capitò di leggere su Internazionale un lungo saggio di Atul Gawande, chirurgo statunitense, professore alla Harvard medical school di Boston, e anche brillante pubblicista. Il titolo era Il medico che ti salva la vita e, nonostante la sua disciplina di origine (la chirurgia di urgenza), dovette ammettere che erano altre le figure che meritavano questo primato. Se ne convinse visitando varie realtà sanitarie di Boston, rimanendo colpito dal modus operandi di un team di cure primarie che aveva la sua sede operativa in un quartiere periferico della città, Jamaica Plain: “I medici di Jamaica Plain usano un metodo incrementale. Essi seguono la salute del paziente nel corso del tempo, anche dell’intera vita. Tutte le decisioni sono provvisorie e soggette a continui aggiustamenti. Affrontano un problema specifico di un paziente senza perdere di vista la sua vita personale, la sua storia familiare, la sua dieta, i suoi livelli di stress, e come tutte queste cose si intreccino tra loro. Questo significa che nella medicina il successo non è determinato da vittorie episodiche e momentanee, sebbene anche queste abbiano la loro importanza. È determinato da una serie di passaggi graduali che producono progressi duraturi. Secondo i sostenitori del metodo incrementale dovremmo guardare un po’ più lontano, dovremmo credere di poter individuare i problemi prima che si verifichino o poterli ridurre, ritardare o eliminare del tutto con un impegno regolare nel lungo periodo” (Maciocco, 2017).

Nella visione di Wagner, e del suo Ccm, come nella pratica dei medici di Jamaica Plain, l’obiettivo è la cura della persona. “La cura della persona, e più ancora il prendersi cura – scrive Guido Giustetto, commentando il libro La responsabilità della cura di Sandro Spinsanti –, è un atto complesso fatto di biologia e di relazione, di ascolto e di proposta, di competenze tecniche e di etica. La prestazione è il tentativo della sua scomposizione in atti isolati, è il vedere la salute come la somma di risposte tecnico-amministrative, economicistiche o al massimo di riparazione di un pezzo del corpo un po’ danneggiato. Ed è anche funzionale a trasformare la nostra salute, i nostri disturbi, in oggetto del mercato, nel più ampio ambito del consumismo sanitario” (Giustetto, 2024). In una sanità mercantile e iperprivatizzata come quella lombarda (e come sta diventando anche il resto dell’Italia), l’assistenza alla cronicità rappresenta una sterminata, inesauribile, e soprattutto molto lucrosa, miniera di prestazioni. Dove una moltitudine di pazienti cronici polipatologici vengono rimbalzati da uno specialista all’altro, senza fine e senza un fine. Dove i concetti di prevenzione, proattività, cure primarie, relazione di cura e presa in carico sono definitivamente banditi. Ecco, in questo contesto, i medici di famiglia sono destinati a rimanere “quella roba lì”.

Bibliografia

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Conflitto di interessi Nessuno

Indirizzo per la corrispondenza

Gavino Maciocco, gavino.maciocco@gmail.com