Cure primarie e medicina di base: una riforma ineludibile

Fausto Nicolini

Già Direttore generale dell’Ausl di Reggio Emilia e Presidente del Comitato di indirizzo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria, Policlinico di Modena

Ricevuto su invito il 24 settembre 2024

Premessa

“Più si riesce a guardare indietro, più avanti si riuscirà a vedere”. Nell’aforisma di Winston Churchill è contenuta la sintesi dell’approccio metodologico e filosofico allo studio sociologico della storia. È la lezione della corrente di pensiero denominata la Nouvelle histoire della École des annales francese e in particolare il concetto di Longue durée di Fernand Braudel. Approccio non sempre condiviso da tutti, come per Jorge Louis Borges quando afferma: “Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti, ma che ritengo sia quello più adatto a guidarci nella lettura del saggio di Vittorio Mapelli, ‘L’assistenza primaria in Italia (1943-2023): dal medico generico alle case della comunità’, pubblicato in questo stesso numero di Politiche sanitarie.

Mapelli, partendo da una ricostruzione storica dell’evoluzione della medicina generale in Italia, prosegue nel descrivere lo statu quo attuale delle cure primarie, le diverse problematiche, le contraddizioni e i nodi irrisolti, anche attraverso un confronto con altre realtà europee, per arrivare a ipotizzare prospettive future e formulare proposte di cambiamento a breve e lungo termine. Con i relativi vantaggi e svantaggi, le opportunità e le resistenze al cambiamento, i costi e i benefici per il professionista, il paziente, la comunità, il sistema sanitario. Un’analisi puntuale e aggiornata, ricca di dati e di riferimenti oltre a qualche suggestione.

La primary care

“La storia dell’assistenza primaria, in tutto il mondo, è la storia di un ‘potenziale non realizzato’. È una storia di consensi sulla sua importanza, di dibattiti sulla sua fattibilità e di fallimenti nella sua implementazione (Rajan et al, 2024)”. Con questo incipit di grande effetto e condivisibile, Mapelli ci introduce alla definizione di primary care.

Mapelli inizia la sua disamina storica chiarendo in premessa alcuni significati e definizioni che parrebbero scontati, ma che in realtà spesso vengono fraintesi o mal interpretati. Perché, come diceva Paul Valery, occorre intendersi sul significato delle parole: “Abbiamo tutti usato parole di grande valore, ma correndo il rischio di non capirci, perché ciascuno di noi vi ha attribuito un significato diverso.Un esempio è, appunto, la primary care, concetto non improntato tanto alla tipologia e complessità dei servizi/prestazioni erogati quanto ai bisogni ‘primari’ della persona (paziente/utente/cliente/cittadino) (Geddes da Filicaia, 2013). È in definitiva il concetto tanto abusato nei convegni, quanto poco realizzato nella pratica, del ‘paziente al centro’ (patient-centred care) ben declinato nello slogan Putting people first con i relativi goal: 1) centralità della persona, 2) completezza e integrazione, 3) continuità della cura, 4) accesso regolare ai servizi, 5) patto di cura (Who, 2008).

Profilo e competenze del medico di medicina generale

Oltre alle cure primarie, Mapelli definisce e inquadra ruolo e funzioni del medico di medicina generale che di volta in volta è disease/clinical manager, gatekeeper e clinical commissioner per il paziente, più che ‘l’ordinatore della spesa del sistema nei documenti ministeriali degli anni ottanta. Concetto, quest’ultimo, del controllo dei costi sanitari e della spesa pubblica, enfatizzato in Inghilterra nel periodo della rivoluzione thatcheriana con l’introduzione del fundholding per i general practitioner (Gp).

Una carenza di funzione che Mapelli evidenzia è quella del task shifting: il processo di delega di funzioni dal medico alle altre professioni sanitarie, e in particolare all’infermiere, che vige già in molti paesi europei e che solleverebbe il medico da una serie di incombenze non fondamentali. Un’innovazione, ancora in fase sperimentale, è a questo riguardo l’infermiere di famiglia o di comunità, introdotto dal d.m. 77/2022. Nella mia esperienza ho sentito spesso i medici di medicina generale lamentarsi degli eccessivi compiti, dell’incombente burocrazia, dei molteplici impegni che, sottraendo tempo prezioso, riducevano quello da dedicare al paziente. Se da un lato ho sempre compreso l’affanno dei colleghi, dall’altro non ho mai condiviso la resistenza a delegare ad altre figure professionali alcune funzioni secondarie. Timore di cessione di sovranità o perdita di autorevolezza? Sarebbe utile effettuare un’indagine su questo aspetto apparentemente contraddittorio nel sentiment della categoria.

In realtà il ruolo idealizzato del medico di medicina generale è quello che fa riferimento alla visione olistica del paziente, secondo l’approccio dell’antropologia medica: “L’uomo come insieme di corpo, psiche, spirito, storia e società”1 e del “modello bio-psico-sociale”2. Ruolo fondamentale, che richiede una formazione specifica per equilibrare la deriva del modello specialistico (e ultraspecialistico), conseguenza ineludibile dello sviluppo scientifico e tecnologico, ma inevitabilmente destinato al riduzionismo, al frazionismo e allo scissionismo (Cosmacini, 2009). Riduzionismo specialistico e tecnologico che ha spinto molte persone/pazienti a cercare risposte nelle medicine alternative, accumunate, oltre che dalla generale assenza di prove di efficacia, anche dall’approccio olistico (Terzani, 2003).

Problema assai sentito anche in ambito ospedaliero, dove se da un lato nei percorsi clinico-assistenziali si sviluppa sempre di più una presa in carico multidisciplinare e multiprofessionale (pensiamo ai Pdta), dall’altro è sempre più necessario individuare una figura di riferimento, responsabile sia del percorso di cura (hospitalist) sia dell’assistenza (case manager), in grado di interfacciarsi con il medico curante del territorio. A questo proposito, superando gli ormai abusati e obsoleti concetti di ‘integrazione ospedale-territorio’ e di ‘integrazione socio-sanitaria’, John Muir Gray, principale esponente dapprima dell’evidence-based healtcare e successivamente della value-based healthcare, propone dal 2012 un modello assistenziale con al centro la primary care, punto di snodo cruciale che si interfaccia e integra con gli altri stakeholder e “si muove” nei diversi setting assistenziali (figura 1).

Inoltre se lo specialist gestisce paziente e percorsi di cura con un prevalente orientamento allo scientific management, il medico di medicina generale ha maggiori affinità con l’humanistic management, dove gli aspetti relazionali e sociali non sono meno importanti delle conoscenze e delle competenze professionali. Tornando al modello bio-psico-sociale, Cosmacini afferma: “La rinuncia del medico ad essere psicologo lo porta ad essere somatologo e riduce la professione a tecnica del corpo scisso.” Non si tratta tanto di acquisire da parte del medico conoscenze e tecniche di psicoanalisi e psicoterapia quanto di sviluppare una relazione con il paziente fondata su un rapporto fiduciario (confidence) trasparente e ‘approcciabile’, basato sulla comunicazione (il più possibile simmetrica) e libero da reminiscenze di paternalismo e autorità gerarchica. Come afferma Jan Callanan3 l’obiettivo è recuperare la reputazione del medico attraverso un nuovo ‘branding etico’, in un periodo dove, nell’era di internet e dei social media, l’autorevolezza basata sulla conoscenza e sulle competenze è in forte crisi (Nichols, 2017). È in questa cornice che si inseriscono l’aderenza e l’alleanza terapeutica, la compliance, il mitigamento dell’asimmetria informativa (anche attraverso strumenti quali la health literacy). È la prospettiva, teorica e complicata ma non utopica, di un paziente non solo collaborante ma protagonista, attore attivo nella gestione della propria salute. Faccio riferimento al sistema delle 4 E: un patient engagement che si fonda sull’education, l’empowerment e la valorizzazione della patient experience, anche attraverso tecniche e strumenti quali la medicina narrativa (narrative-based medicine).

Non si tratta solo di medicina umanistica: si tratta di temi rilevanti per la sostenibilità dei sistemi sanitari, in particolare pubblici e universalistici, e non solo in Italia. Nel 2015 l’European steering group on sustainable healthcare ha prodotto un white paper con raccomandazioni e 18 azioni per garantire una sanità sostenibile. Tutte riconducibili a tre focus fondamentali:

1. promozione della salute, prevenzione e intervento precoce;

2. empowerment e responsabilizzazione dei cittadini;

3. riorganizzazione nell’erogazione delle prestazioni sanitarie con particolare attenzione alle cure primarie (European steering group on sustainable healthcare, 2015);

riproponendo di fatto i pilastri fondamentali della Dichiarazione universale di Alma Ata (1978) e della Carta di Ottawa (1986).

Analisi storica

Ritornando alla disamina storica relativa all’evoluzione della medicina di base in Italia, Mapelli ricostruisce le principali tappe a partire dal dopoguerra con un breve accenno anche retrodatato alla figura del medico condotto, introdotta nel periodo della ‘temperie igienistica’ dal ministro Pagliani (governo Crispi) con la prima riforma della sanità pubblica, ispirata, anche allora, al sistema inglese. Vengono descritti numerosi aspetti della progressiva evoluzione e sviluppo della medicina di base, dal 1978 in parallelo con il Servizio sanitario nazionale (Ssn), attraverso i provvedimenti legislativi e gli accordi collettivi: la remunerazione (a notula, a quota capitaria, oraria e mista), i limiti di numero degli assistiti, l’incompatibilità con l’attività ospedaliera, i trend storici relativi al numero dei medici laureati e convenzionati, i cambiamenti organizzativi tra convenzione Inam (il famoso ‘medico della mutua’, rappresentato in chiave di commedia satirica da un irresistibile Alberto Sordi in un omonimo film del 19684) e convenzione Ssn, i vincoli giuridici e normativi, le diverse forme associative, l’andamento della spesa, etc. Proseguendo attraverso i numerosi aggiornamenti della convenzione (gli accordi nazionali rinnovati in media ogni 3 anni), si arriva al decreto 23 maggio 2022, n. 77, “Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”: la grande scommessa, dopo che il decreto 70/2015 aveva ridefinito e regolato gli standard qualitativi, tecnologici, strutturali e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera. Alcuni passaggi meno recenti, e forse meno conosciuti, meritano di essere ricordati, in particolare per i colleghi più giovani (tabella 1).

Mapelli pone poi opportunamente l’attenzione in particolare su due aspetti: la formazione del medico di medicina generale e un confronto tra i modelli di assistenza primaria in Europa. Colpisce la variabilità sia tra i diversi stati dell’Unione europea sia all’interno dello stesso paese relativamente ad alcuni aspetti come il rapporto di lavoro, il regime contrattuale, l’adesione alla medicina di gruppo, la remunerazione, il debito orario di apertura ambulatoriale, la risposta alle urgenze, le strutture organizzative di riferimento, la disponibilità di risorse strumentali diagnostiche e di personale di supporto amministrativo, la collaborazione in équipe con altre figure sanitarie, e in particolare con i medici specialisti, le funzioni delegate al personale infermieristico, la compresenza di privato. Risulta evidente come in molti campi l’Italia sconti un significativo ritardo rispetto agli altri paesi.

Case della salute e di comunità

Infine viene affrontato il tema delle case della salute proposte sotto il ministro Livia Turco già nel 2007 ma con un’implementazione limitata e disomogenea a livello nazionale. Oltre a proporre, anche su questo tema, un confronto con gli altri paesi dell’Ue, Mapelli si sofferma su alcune criticità proprie del nostro paese:

1. la diffusione disomogenea tra le diverse regioni dove spiccano Emilia-Romagna e Toscana, mentre altre regioni non hanno sviluppato una programmazione adeguata o sono rimaste al palo;

2. la diversa struttura funzionale e organizzativa lasciata alla programmazione delle singole regioni;

3. la scarsa adesione dei medici di medicina generale, indotta dalla volontarietà e dall’assenza di un obbligo contrattuale nonché dalla resistenza al cambiamento (in particolare delle generazioni più anziane, ancora affezionate al proprio ambulatorio, spesso di proprietà);

4. la scarsa propensione alla medicina di gruppo anche grazie alla possibilità di aderire a forme associative che non prevedono la presenza fisica in strutture dedicate. A questo proposito Mapelli si interroga sulle possibili motivazioni alla base di questo atteggiamento, in particolare da parte dei medici più anziani. Concordo che possa trattarsi spesso di una forma mentis legata alle certezze maturate nella propria esperienza di single. Forse, a mio giudizio, possono esserci altri motivi alla base di questo rifiuto. Il cambiamento, se radicale, produce sempre e inevitabilmente timori: il confronto con i colleghi (benchmark negativo), la cessione di sovranità sui ‘propri’ pazienti, l’inadeguatezza al compito, l’ambulatorio di proprietà, i vincoli che limitano l’autonomia gestionale con la perdita della propria comfort zone… tutti fattori da considerare e possibilmente da valutare attraverso una survey ben strutturata;

5. la ridotta apertura oraria di accesso, assai lontana dallo standard previsto H24 per 7 giorni su 7;

6. la carenza di personale dedicato e formato ‘ad hoc’, come l’infermiere di comunità, figura di recente istituzione;

7. la trasformazione di strutture già esistenti, quali poliambulatori o piccoli ospedali di prossimità, “a cui è stata cambiata l’insegna (non sempre).” In effetti si tratta di trasformazioni ‘cosmetiche’ interpretate come up-grade nel caso di poliambulatori a cui si è aggiunto un nucleo di medici di medicina generale o un down-grade nel caso dei piccoli ospedali spesso chiusi o ridimensionati tra le proteste di inevitabili ‘comitati di difesa’ cittadini. Ospedali che invece sarebbe stato utile e necessario chiudere molto tempo prima;

8. l’assenza in generale di valutazioni relative all’impatto di queste strutture sullo stato di salute della popolazione di riferimento, se si escludono alcune survey della Regione Emilia-Romagna rispetto ad indicatori di processo quale, ad esempio, la riduzione degli accessi inappropriati al Pronto soccorso ospedaliero.

Se le case della salute non sono decollate in molte regioni, occorrerà vedere cosa accadrà per le case di comunità, previste dal d.m. 77/2022 e finanziate con i fondi del Pnrr (circa 2 miliardi di euro per oltre 1.000 edifici nuovi o più spesso ristrutturati). Si tratta di una scommessa di cui è difficile prevedere l’esito. Timori relativi ai costi della parte strutturale, stanti l’incremento dei costi dei materiali edili e le problematiche legate alla ristrutturazione di edifici, in gran parte già esistenti e da adattare alla nuova destinazione, ma anche ai costi di gestione. Non meno preoccupazioni riguardano la parte organizzativa in relazione al fabbisogno incrementale di personale sanitario e al suo reperimento in un periodo di shortage medico e infermieristico. Problema ancora più grave rispetto alla copertura nelle aree rurali, montane e/o oro-geograficamente disagiate, acuito dal non-obbligo contrattuale di adesione, con una netta frattura generazionale in relazione alla disponibilità. Infine sono forti i dubbi sui possibili outcome in termini di riduzione dell’inappropriatezza dei ricoveri ospedalieri, del consumo di farmaci, dell’accesso al Pronto soccorso con conseguente riduzione dei costi in questi settori di spesa. Per quanto riguarda il Pronto soccorso, per Mapelli è velleitario un obiettivo di riduzione degli accessi impropri superiore al 60% quando la Regione Emilia-Romagna, che ha sviluppato la maggiore esperienza in termini di case della salute, ha registrato nella sua esperienza pluriennale una riduzione del 16%. Concordiamo anche su questo.

Libera professione o dipendenza

L’ultimo capitolo affrontato riguarda la vexata quaestio del rapporto contrattuale tra innovative proposte di cambiamento verso il regime di dipendenza e antiche e inscalfibili resistenze in difesa della libera professione e del regime convenzionale. Questione che viene da lontano. Nel 1978 con l’istituzione del Ssn si replicò la situazione peraltro già vista trenta anni prima all’istituzione del Nhs inglese: l’arruolamento in massa dei medici ospedalieri al regime di dipendenza e la mancata adesione dei Gp. Opportunamente Mapelli ricorda che l’art. 25 della l. 833/78 stabilisce che “l’assistenza medico-generica e pediatrica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del Ssn…” lasciando quindi aperta teoricamente l’opzione della dipendenza per il medico di medicina generale. Anche su questo tema Mapelli analizza i diversi punti di vista, i possibili costi-benefici di questo cambiamento epocale nonché vantaggi e svantaggi, opportunità e convenienze per i diversi stakeholder (paziente, comunità, sistema sanitario) ma soprattutto per il medico di medicina generale e per le sue rappresentanze sindacali. Anche su questo tema si registra una significativa contrapposizione generazionale tra giovani medici favorevoli alla dipendenza e medici anziani ancorati al modello tradizionale del proprio ambulatorio e dei propri pazienti.

Conclusioni e proposte

Al termine di questa estesa e puntuale trattazione, ricca di dati e di spunti critici, Mapelli esplicita alcune proposte la cui valutazione lasciamo al giudizio di ogni lettore. Certo si tratta di una materia complessa come complessa è la sanità. Elio Borgonovi, in uno dei suoi illuminanti aforismi, ha affermato che: “I manager della sanità non possono pensare di governare la complessità ma solo nella complessità.” Questo vale anche per il medico di medicina generale che è manager (di sé stesso) in quanto gestisce risorse pubbliche in modo diretto e indiretto. Rimangono a mio avviso alcuni temi fondamentali da trattare: il primo riguarda l’efficacia e l’efficienza delle cure primarie valutate con indicatori e standard di performance, spesso difficili da definire. In poche parole: la primary care funziona? Atul Gawande5 non ha dubbi in proposito: “La medicina di emergenza e quella specialistica sono fondamentali, ma è il rapporto prolungato tra medici di base e pazienti che fa la differenza.” E ancora: “Alla fine ho dovuto cedere, sembrava proprio che le cure primarie facessero molto alle persone, alla lunga forse più della chirurgia(Gawande, 2017). Senza entrare nello specifico, in letteratura vi sono studi negli Usa e nel Regno Unito del primo decennio del 2000 che evidenziano una correlazione tra diffusione della primary care e migliori outcome in termini di basso peso alla nascita, mortalità infantile, salute percepita, diseguaglianze di salute e contenimento della spesa sanitaria. Un altro quesito riguarda come applicare il chronic care model a una primary care che ha in carico una popolazione sempre più anziana, affetta da patologie croniche, comorbilità, non autosufficienza, fragilità e disabilità acquisita, con un burden of disease derivante dalla transizione epidemiologica e dall’inverno demografico, che incide in modo prevalente sul territorio e richiede approcci maggiormente focalizzati sulla promozione della salute e degli stili di vita, sulla prevenzione e la medicina di iniziativa. Si tratta in quest’ottica di concentrarsi su nuovi strumenti di gestione del paziente ma anche e soprattutto di attivare policy realmente innovative. Anche considerando la sempre maggiore diffusione e applicazione della telemedicina. Anche se occorre evidenziare come non vi sia nulla in questo senso da scoprire: la dichiarazione universale di Alma Ata è del 1978. È passato quasi mezzo secolo.

In tutti i casi la questione della riorganizzazione delle cure primarie e della medicina di base, nonché la ridefinizione del ruolo e del profilo del medico di medicina generale, sono due aspetti topici e strategici di una riforma del Ssn che ormai, più che necessaria, appare ineludibile.

Note

1Vedi il pensiero di Viktor Von Weirsacker (1886-1957).

2Vedi il pensiero di George Libman Engel (1915-1999).

3Jan Callanan, Healthcare group, Dublin. European society for quality in healthcare (ESQH)

4‘Il medico della mutua’, film del 1968 per la regia di Luigi Zampa e interpretato da Alberto Sordi, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe D’Agata, è considerato un classico della commedia all’italiana e della satira di costume.

5Atul Gawande, medico chirurgo di origine indiana di Boston, professore alla Harvard Medical School e alla Harvard School of Public Health, è anche giornalista e divulgatore scientifico, autore di libri di successo, autentici bestseller mondiali, quali ‘Salvo complicazioni’ (2002), ‘Con cura’ (2007), ‘Checklist: come fare andare meglio le cose’ (2009), ‘Essere mortale’ (2016). I suoi scritti sono spesso citati nel dibattito in Usa sulla sanità e l’ex presidente Obama vi ha fatto spesso riferimento.

Bibliografia

Borgonovi E (2018), Relazione alla Prima Convention FIASO nazionale del Management della Sanità italiana tra passato, presente e futuro, Roma, 7-9 novembre.

Cosmacini G (2009), Prima lezione di medicina, Roma, Edizioni Laterza.

European steering group on sustainable healthcare (2015), Acting together: a roadmap for sustainable healthcare. Disponibile online al seguente indirizzo: https://eu-ems.com/event_images/Downloads/FINAL VERSION - WHITE PAPER BOOKLETS 270215.pdf. Ultima consultazione: ottobre 2024.

Gawande A (2017), The heroism of incremental care, The New Yorker, 23.1.2017.

Geddes da Filicaia M (2013), Cliente, paziente, persona. Il senso delle parole in sanità, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore.

Nichols T (2017), La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Roma, Edizioni Luiss University Press.

Rajan D, Rouleau K, Winkelmann J et al (2024), Implementing the primary health care approach: a primer, Geneva, Who.

Terzani T (2003), Un altro giro di giostra, Milano, Edizioni Longanesi.

Who (2008), The world health report 2008: primary health care now more than ever. Disponibile online al seguente indirizzo: https://iris.who.int/handle/10665/43949. Ultima consultazione: ottobre 2024.

Conflitto di interessi Nessuno

Indirizzo per la corrispondenza

Fausto Nicolini, faustonicolini58@gmail.com